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I Premi Nobel erranti della Romania

Il vincitore del Premio Nobel per la Chimica 2014 si chiama  Stefan W. Hell  (premiato insieme agli americani Eric Betzig e William E. Moerner).
Stefan è tedesco nato e cresciuto in Romania.
Questa è la storia di un ebreo, due tedeschi e un americano…. tutti rumeni, tutti premi Nobel!
Uniti da un destino comune, segnato dall’appartenenza a un paese, la Romania, e alla sua storia tormentata degli ultimi 60 anni, furono obbligati a scappare, per salvarsi, per sopravvivere e per seguire i propri sogni.  Si potrebbe ricorrere a una frase fatta, pronunciata troppo spesso dalle nostre parti (oggi purtroppo attuale anche in Italia) : “spesso bisogna andare lontano per affermare le proprie ambizioni”.  In questi giorni,  nel mio paese, politici, opinionisti, analisti, gente comune si sono lanciati in commenti sterili su questo tema;  una domanda tra tutte, quasi retorica: “se fossero rimasti in Romania, sarebbero ugualmente riusciti a vincere un Nobel”?
Credo che invece di chiedersi se avessero comunque fatto la storia, sarebbe forse più giusto domandarsi se fossero sopravvissuti alla storia!

Stefan Hell è nato in Romania, nel 1962, nella cittadina di Arad, in una famiglia di șvabi (cittadini di origine sassone) che è emigrata in Germania, nel 1978.  Ha vissuto in Romania per 16 anni e, a sentire il suo racconto, la passione per la chimica è nata mentre frequentava il Liceo Nikolas Lenau di Timisoara, lo stesso che ha frequentato un precedente vincitore del premio Nobel, questa volta, per la letteratura, la scrittrice Herta Muller. La loro storia personale si incrocia con la storia di un paese, che, per più di quarant’anni, è stato vittima di una dittatura comunista dalla cui follia senza limiti volevano fuggire tutti. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, la fuga era all’ordine del giorno, perché non c’era speranza. Tutti volevano fuggire, anche a costo della morte. Dal 1968 al 1989, oltre 200.000 cittadini rumeni di etnia sassone hanno lasciato la Romania. Nessuno poteva lasciare la nazione ma, per accordi con Israele e la Germania Federale, i sassoni e gli ebrei dietro lauto compenso (spesso coperto dalle rispettive nazioni), potevano ricongiungersi agli stati di origine. Il dittatore Ceaușescu capì presto quanto potesse essere redditizio questo commercio umano e rimarranno nella storia le sue parole: “Il petrolio, gli ebrei e gli șvabi sono le merci più ricercate da esportazione“. A partire dal 1978, il “prezzo” di un cittadino rumeno e della sua rimpatriata in Germania fu stabilito a 4000 marchi, per poi arrivare, nel 1988, a 8950 marchi.
Il neo premio Nobel per la Chimica, Stefan W. Hell,  ha lasciato la Romania nel 1978, insieme alla sua famiglia,  pagando probabilmente anch’egli  in marchi  il prezzo della propria libertà.  “Andarmene via è stato un grande sollievo per me, la Romania era un paese comunista dove non ti era permesso di dire quello che pensavi. Da un altro lato, invece, la scuola che ho seguito a Timișoara era molto buona e gli studi fatti lì mi hanno arricchito di conoscenze più avanzate di quelle dei miei colleghi tedeschi“, ha dichiarato recentemente in un’intervista Hell. Per lui, il “luogo dove sei nato è un posto speciale, che ti rimane nel cuore, ovunque tu vada“.  A volte la memoria di questi luoghi è tenera e i ricordi sono pieni di luce, a volte invece sono sommersi nel buio del terrore. E’ questo il caso di Herta Muller, che ha sviluppato il suo stile letterario proprio tra ombre soffocanti che avvolgevano la sua memoria, ottenendo il Nobel nel 2009 grazie alla “concentrazione della sua poesia e alla franchezza della sua prosa con le quali ha saputo descrivere il paesaggio dei diseredati” come si può leggere nella motivazione dell’Accademia di Stoccolma.
La scrittrice, poetessa e saggista è nota per la descrizione della dura vita sotto il regime comunista di Ceaușescu. Nel 1987 fuggì dalla Romania insieme al marito dopo essere stata licenziata nel 1979 (era traduttrice di tedesco) perché si era rifiutata di collaborare con la Securitate, la famigerata polizia segreta del regime, la stessa che la seguì e la perseguitò negli anni a venire.  ” Ti rendevi conto che sono stati di nuovo a casa tua da un quadro o una sedia spostati”, racconta. ” Se senti il rumore dell’ascensore mentre sei in casa a leggere un libro e ti viene il panico perché credi che siano venuti a prenderti. Tutto perde la sua ovvietà, cambia la visione e la percezione delle cose. In Romania ero così estranea che ero devastata da quella che provavo. Non c’è niente di più orribile che essere estranea in una patria che ti vuole morta»
Quando finalmente riuscì a ottenere dalla Securitate il dossier di 914 pagine che la riguardava, Herta Müller scoprì che veniva definita “un pericoloso nemico dello Stato da combattere”. Il suo nome in codice non era più Herta, ma “Cristina” alla quale venivano addebitate “distorsioni tendenziose della realtà del Paese“,  contenute nei suoi due libri scritti in tedesco, pubblicati in Romania, ma violentemente tagliati dalla censura comunista.  

Se veramente la storia è la somma dei fatti che si succedono, a volte apparentemente sconnessi, e “a fare la storia sono gli individui che hanno vissuto un attimo diverso dall’altro“, come stessa Herta Muller sostiene, dalla stessa parte del mondo,  ma in un’epoca diversa, un altro rumeno, premio Nobel per la pace, Ellie Wiesel, ha dato il proprio contributo pagando uno dei dazi più terribili, l’Olocausto, sopravvivendo.

Wiesel è uno scrittore statunitense, di cultura ebraica e di lingua francese, nato in Romania, a Sighetu Marmației (nella regione di Maramureș), nel 1928, in una famiglia ebrea. Fu deportato nel 1944 ad Auschwitz,  insieme ai genitori a alle tre sorelle. I genitori e una delle sorelle morirono qui, invece le altre due sorelle le ritroverà, qualche anno dopo, in un orfanotrofio in Francia. Per dieci anni dopo la fine della guerra, Wiesel si rifiutò di scrivere o parlare della propria esperienza durante l’Olocausto. Come molti sopravvissuti, non riusciva a trovare le parole per raccontare la sua esperienza. Poi scrisse 900 pagine di memorie,  “E il Mondo rimane in silenzio”, in cui raccontava la sua esperienza, nuda  e cruda, vissuta nel campo di Auschwitz, esperienza che gli ha fatto perdere la fede in Dio e l’umanità. L’opera, giudicata dai critici “rabbiosa”, fu riscritta, in versione più breve, in francese, con il titolo La notte, che fu subito considerato un capolavoro.   

“Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. “ Così descrive il suo tragico arrivo al campo di Auschwitz, nel settembre del 1944.  Quando, nel 1986, riceve il premio Nobel per la pace, il Comitato Norvegese dei Premi Nobel lo definì “messaggero per l’umanità”,  perché aveva consegnato al mondo un potente messaggio di “pace, di espiazione e di dignità umana“, attraverso la sua personale esperienza nei campi di concentramento.  A distanza di cinquant’anni il libro La Notte è stato tradotto in 30 lingue, ed è considerato, accanto a Se questo è un uomo, di Primo Levi e al Diario di Anna Frank, come uno dei capolavori della letteratura sull’Olocausto. 

La nostra storia dei Nobel rumeni,  erranti nel mondo, si chiude con George Emil Palade, un biologo e medico rumeno, naturalizzato statunitense, che ha vinto, nel 1974, il premio Nobel per la medicina e fisiologia, grazie alle sue ricerche nella biologia cellulare. Nato a Iași (nella regione della Moldavia), nel 1912, ottiene il titolo di dottore in Medicina, presso l’Università di Bucarest. Nel 1946, decide di lasciare la Romania, che, dopo l’abolizione della monarchia, si avviava nel tunnel comunista. La sua carriera è folgorante: da ricercatore all’Università di New York  all’Istituto Rockfeller, poi alla Yale University e all’Università di San Diego in California. Nel 1986, il presidente Ronald Reagan gli accorda la medaglia nazionale per meriti nel campo della scienza. Palade muore in California, all’età di 96 anni,  e le sue ceneri vengono sparse, per volontà sua, nei Monti Bucegi, in Romania, da una vetta chiamata Vârful cu Dor, la Vetta della Nostalgia.




5 minuti di musica classica al giorno tolgono il medico di torno

Quando ho letto che, a partire dall’anno scolastico 2014-2015, nelle scuole della Romania, a partire dalle elementari, si svolgerà un programma nazionale dal nome  “Ascolta 5 minuti di musica classica al giorno”, ho pensato che sarebbe bellissimo se un progetto simile si realizzasse anche nelle scuole italiane.  Così i ragazzi saprebbero, per esempio, che la sigla della trasmissione TGR Leonardo, il telegiornale di scienze di Rai 3,  è la Sonata per violoncello e pianoforte in fa minore op. 26 del più grande musicista rumeno George Enescu (maestro tra l’altro di Uto Ughi e Yehudi Menuhin nei corsi di interpretazione tenuti a Parigi, Londra e Sienna), la stessa che è stata utilizzata come tema ricorrente nel film di Wes Anderson,  I Tenenbaum.

Mentre scrivo sento in lontananza una canzone neomelodica a tutto volume e mi viene in mente che a scuola di mio figlio non c’è un professore di musica,  come in molte scuole italiane, che le ore di musica le ha fatte a rotazione con la maestra di storia, quella di italiano o di inglese – come se la preparazione dell’insegnante fosse un dettaglio irrilevante –  e che gli unici due progetti musicali  (più precisamente di percussioni) che ha seguito,  erano a carico dei genitori.  Ma questa è un’altra storia, e non vorrei scatenare polemiche.

L’idea di far ascoltare ai ragazzi cinque minuti di musica classica al giorno,  nelle pause, tra una  lezione di matematica e una di storia, mi sembra meravigliosa. “Abbiamo bisogno di generazioni con un’educazione diversa, non solo di prigionieri della tecnologia”, spiega uno degli autori della proposta diventata programma nazionale,  grazie all’accordo tra la Radio Romania Musicale (l’unica radio che trasmette esclusivamente musica classica) e il Ministero per l’Istruzione Rumeno.

Praticamente, Radio Romania Musicale metterà a disposizione degli insegnanti le registrazioni più importanti di musica classica, rumena e universale, accompagnate da brevi spiegazioni, pensate appositamente per far avvicinare i bambini, anche di piccola età, alla musica classica.  In più, gli insegnanti avranno la possibilità di creare una vera e propria biblioteca musicale che potranno utilizzare durante le lezioni.  I ragazzi non si limiteranno all’informazione teorica sulla musica, che riceveranno durante le lezioni, ma avranno la possibilità di sentire registrazioni di grande valore artistico.  Cinque minuti al giorno sono solo un primo passo nel percorso ambizioso di formare il gusto artistico dei ragazzi rumeni, “vittime” anche loro, come tutti gli altri, della tecnologia o delle correnti musicali moderne, non sempre di grandi qualità artistiche.  Il progetto ha anche una componente interattiva: sul sito della radio Romania Musicale,  si svolgeranno, a partire dal 1 ottobre, dei concorsi di cultura musicale,  con premi CD e DVD di grandi concerti e libri.

Il programma nazionale “Ascolta 5 minuti di musica classica” fa parte di un progetto più ampio che Radio Romania Musicale svolge dal 2010. Prima di arrivare nelle scuole, la musica classica in pillole è approdata negli spazi non convenzionali come supermercati, centri commerciali,  poste, uffici, librerie e musei, dove l’afflusso di gente è maggiore che nelle sale da concerto. Lo scopo è quello di cambiare il modo di approcciarsi al classico, reinventando il concetto di sala da concerto e portando l’orchestra verso il pubblico. Due volte all’anno, a marzo e ad ottobre, i rumeni hanno non solo la possibilità di sentire registrazioni di capolavori musicali, magari facendo la spesa, al supermercato, ma anche di ascoltare dal vivo grandi interpreti rumeni che suonano Bach, Mozart o Enescu  nei centri commerciali.

Mi piace pensare che da questo e altri progetti, in qualche scuola rumena nascerà un genio come George Enescu, che ha composto a cinque anni la sua prima opera per pianoforte e violino ( “Paese romeno”).

Mirela Baciu
5 minute




“Speriamo che non siano rumeni!”

Poco tempo fa i miei suoceri e dei loro amici sono stati derubati di soldi e carte di credito. Mentre stavano al mare,  i ladri sono entrati in casa e hanno fatto piazza pulita. Quando sono andati a fare la denuncia dai carabinieri, hanno saputo che c’era un banda di rumeni che agiva in questo modo da un po’ di tempo e che erano sulle loro tracce. Ho saputo dell’accaduto solo molti giorni dopo, non dai miei suoceri, che hanno considerato che era meglio non raccontarmi niente per non “mortificarmi”. Ho apprezzato la loro delicatezza, ma comunque mi sono sentita mortificata. Come tutte le volte che sento raccontare episodi simili, o peggiori, e vengo a sapere che gli autori sono, spesso, bande di rumeni. Confesso che sentendo di furti e rapine mi viene quasi istintivamente da pensare: “speriamo che non siano rumeni”!  Poi, però, mi sento felice quando qualcuno mi parla bene di qualche rumeno che ha conosciuto, un alunno educato e gentile, una badante brava e simpatica che insegna ricette rumene alla famiglia dove lavora, due operai che montano i mobili Ikea, molto seri e efficaci, un’infermiera preparata e riservata che sa fare molto bene il suo lavoro.

E’ inutile dire quanto mi sono sentita felice e lusingata quando la mia cara amica Maria Teresa mi ha fatto una vera dichiarazione pubblica su facebook per dirmi quanto apprezza questo blog, in cui racconto la mia vita da “rumena integratissima in Italia”. Lo so che una rondine non fa primavera e che un solo individuo non fa un popolo, ma mi piace credere che ogni apprezzamento che ricevo io o un altro rumeno che vive qui in Italia vale quanto un apprezzamento generale, per il popolo a cui apparteniamo.  Non amo le generalizzazioni, ma se fanno parte comunque della nostra configurazione mentale, perché farle solo in seguito a fatti di cronaca nera, come succede da qualche decina di anni da queste parti? Non tutti i rumeni sono delinquenti e non tutti sono onesti cittadini, come per qualsiasi altro popolo.

Al di là delle percezioni soggettive, positive o negative, per quanto riguarda i rumeni in Italia, c’è una realtà indubitabile svelata recentemente da United Nations Population Division:  per la prima volta nella storia, l’Italia ha una comunità nazionale di immigrati ufficiali che supera il milione di persone: sono i rumeni, un milione e diecimila nel 2013 . Una crescita straordinaria: nel 2010 erano 850 mila , nel 2000 solo 120 mila e nel 1990 circa 40 mila .  Gli analisti politici considerano il dato rilevante da molti punto di vista. Da quello sociale, perché romeni e romene sono una presenza con la quale gli italiani entrano in relazione sempre più spesso. Da quello economico, perché gran parte di loro è inserita nel mondo del lavoro. Da quello commerciale, in quanto una comunità di un milione di persone inizia a essere seriamente interessante per chi vuole offrirle servizi, ad esempio viaggi e istruzione, o prodotti, con pubblicità annessa.  Il dato ancora più rilevante è che i rumeni in Italia, che lavorano e pagano le tasse,  contribuiscono per 1,4% del PIL. Se argomenti come latinità e storia comune (testimone ne e proprio il nome del mio paese, Romania, che deriva dall’aggettivo latino Romanus, romano),  un passato fraterno da emigranti, un presente fiorente di matrimoni misti e figli bilingui, se tutto ciò non riesce a far cambiare la percezione degli italiani verso i rumeni, almeno davanti agli argomenti di natura economica la stampa dovrebbe ridimensionare il modo di presentare all’opinione pubblica la comunità balcanica.  L’Italia è il secondo partner commerciale della Romania, dopo la Germania, gli scambi commerciali tra i due paesi sono arrivati a 13 miliardi di euro (pari al valore degli scambi commerciali tra l’Italia e l’India).  In Romania esistono oltre 30.ooo aziende italiane e in Italia i rumeni hanno creato 50.000 aziende.

Sono convinta che, per la maggior parte degli italiani, questi dati non fanno notizia perché si sa che le buone notizie non fanno mai notizia. Io invece mi ostino a credere che prima o poi qualcosa cambierà e che io per prima smetterò di sperare “che non siano rumeni” ogni volta che sento di qualche furto.




Rivoglio i miei vent’anni… quando facevo il militare!

Ho vissuto per 21 anni sotto il regime comunista di Ceaușescu, anche se i miei genitori appartenevano a quello che oggi chiamano la “classe privilegiata” e che all’epoca era la “nomenclatura” del partito. Nel dicembre del 1989, quando scoppiò la rivoluzione rumena, mio padre e tutti i dirigenti del partito comunista rimasero chiusi nei palazzi del potere, con le armi in dotazione, aspettando ordini, chiarimenti, decisioni da Bucarest, nella confusione e nel caos più totale in cui cadde il paese intero. Invece di ordini dall’alto, arrivarono i rivoluzionari, dal basso, dal popolo,  che occuparono le strutture del potere. Con il terrore che non sarebbe mai tornato a casa o che sarebbe finito in prigione, ci scrisse una lettera che ci lasciò la mattina del 20 dicembre, quando uscì di casa come tutte le mattine, per andare al lavoro. Ci diceva che tutto quello che aveva fatto negli ultimi vent’anni lo aveva fatto per proteggere noi.

Ma non è su questo che voglio scrivere anche se, a dire il vero,  ci sarebbe tanto da parlare sul conflitto interiore che mi ha logorato a lungo tra l’amore indiscusso per mio padre e la tentazione di giudicarlo per errori e colpe non direttamente sue, ma del regime, per i troppi silenzi, le molte omissioni e l’eccessiva sottomissione.

Nell’aprile del 2014, un sondaggio realizzato in Romania dall’istituto IRES scopre che il 66% dei rumeni intervistati vorrebbero di nuovo conducătorul iubit (leader amato), ossia Nicoale Ceaușescu,  a guidare il paese, perché, secondo loro,  prima si viveva meglio. Quello che ha sorpreso gli analisti politici rumeni e stranieri non è stata l’alta percentuale di nostalgici, ma il fatto che, negli ultimi 4 anni, il loro numero è cresciuto addirittura del 25%. Nonostante i venticinque anni trascorsi dalla caduta del regime comunista, la sanguinosa rivolta popolare,  la fucilazione del dittatore con la moglie Elena nel giorno di Natale ’89 e all’instaurazione della democrazia, i rumeni rimpiangono il loro lavoro sicuro, la casa a cui pensava il partito, il fatto che tutti avevano la vita che sembrava la migliore possibile. “Questa sorta di nostalgia di comunismo non è altro il che frutto di una cattiva memoria”, hanno sentenziato gli analisti. Beh si, facile dare sentenze e tirare sempre in ballo la memoria collettiva! mormant-ceausescu1Io preferisco appellarmi alla memoria individuale, la mia, e vi dirò, con onestà,  di cosa sono nostalgica e cosa invece non mi manca di quei 21 anni vissuti nella Romania comunista.

Ho nostalgia delle belle giornate e serate passate a divorare libri, in assenza della tivù come alternativa “contagiosa”, visto che c’era un solo canale e due ore di programma, dalle otto alle dieci di sera. Ho nostalgia dei cartoni animati russi (uno in particolare, di un lupo che inseguiva sempre un coniglio furbacchione, che non si faceva mai acchiappare e che ho fatto vedere anche a mio figlio quando era piccolo), dei film russi che adoravo (il grande regista Nikita Mihalkov!), dei libri vietati dalla censura che ci passavamo sotto mano e leggevamo di nascosto.
Non ho nostalgia invece della propaganda quotidiana che dilagava in tv nei discorsi del dittatore, della censura che vietava libri, poeti, scrittori e ogni forma di arte libera; delle continue interruzioni di corrente imposte come forma di risparmio energetico, che ci obbligavano a fare i compiti al lume di una candela o di una lampada a petrolio.

Ho nostalgia del mio liceo pieno di alunni, con le sezioni che arrivavano alla lettera M, del cortile della scuola in cui ci incontravamo nelle pause a parlare di tante cose, sottovoce.  Mi ricordo che, quando qualcuno raccontava una delle tante barzellette che circolavano sul dittatore o sul regime, sapevamo che era un “provocatore” e seguivamo i consigli dei genitori di non ridere, mai. Eravamo tanti quelli della mia generazione, ci chiamavano decreței,  figli del decreto 770 del 1967,  che vietava gli aborti. Ci piaceva credere che eravamo frutti di un amore e non di un decreto. Non scherzavamo molto perché sentivamo anche noi  i nostri genitori raccontarsi di qualche amica o conoscente che era morta nel tentativo clandestino di abortire. Non mi mancano assolutamente le file davanti allo studio medico del liceo, per i controlli ginecologici obbligatori a cui ci dovevamo sottoporre dopo che una di noi era rimasta incinta ed aveva provato ad interrompere la gravidanza in casa, rischiando la vita.

Mi mancano invece le lunghe file davanti ai teatri, dove la censura non era ancora entrata o era troppo ignorante per capire i sotterfugi dei registi, che trasformavano  gli spettacoli in vere forme de dissidenza culturale. Mi mancano le serate di cinema alla Casa degli studenti, dove ho visto i film di Visconti, Fellini, Pasolini, trascurati dalla censura, nella mischia di film russi, indiani o cinesi. Non mi mancano i documentari propagandistici che precedevano i grandi film d’autore e neanche i festival dedicati a Ceaușescu, per nutrire il suo eccessivo culto della personalità.

Ho nostalgia dei corsi universitari, alla Facoltà di Lettere di Cluj,  una piccola isola di universalità, in cui avevamo la libertà di viaggiare con la mente senza che nessuno potesse impedircelo, in cui ognuno veniva gratificato per i propri meriti, apprezzato per il suo valore. Mi mancano le colonie estive dove andavano i più meritevoli, come premio per il loro impegno alla “costruzione di una società comunista esemplare“.  Non mi mancano i giorni di militare (si ho fatto anche il militare!), obbligatori per le studentesse, in cui in cui venivamo istruite per diventare un esercito di donne. Non mi mancano neanche le lunghe marce sotto il sole, con il Kalashnikov appeso sulla spalla, la stessa che diventava viola per il rinculo del fucile quando andavamo al poligono a sparare, un maledetto Kalashnikov che non riuscivo mai a rimontare correttamente, sempre con un pezzo avanzato in mano da collocare.

E cosa dire delle ficoada-permisele davanti ai negozi di alimentari, con la scheda chiamata cartelă in mano, per ottenere un pezzo di pane  e un litro di latte al giorno e, mensilmente, 1 kg di zucchero, 1 di farina, 1 di olio, 10 uova, 1 kilo di carne,  la nostra razione,  per me e mia sorella, che eravamo studentesse e vivevamo da sole? No, quelle non mi mancano affatto!

Noi, da privilegiati, potevamo acquistare ogni tanto anche altre cose, il caffè solubile ad esempio, il cioccolato cinese, salame,  qualche deodorante tedesco, saponi ungheresi, scarpe di qualità destinate solo all’esportazione,  medicinali, cotone idrofilo, qualche libro vietato dalla censura.  La nostra casa diventava a volte una sorta di mensa per gli amici, i meno fortunati.

Ho nostalgia degli inverni a casa dei miei nonni, in campagna, dove le stufe in terracotta riscaldavano le stanze per tutta la notte. Non mi mancano, ovviamente, gli inverni in città, con sole due ore di riscaldamento al giorno, a volte a 35 gradi sotto zero, in una pazza corsa al risparmio energetico del regime.

Ho nostalgia delle visite in Romania di tanti Elena (signora), l’amica francese di mia mamma, che portava con lei tutto il profumo parigino del mondo proibito.  I miei primi jeans “capitalisti” me li ha portati lei e mi hanno invidiato tutti a scuola. Mio padre preferiva non essere presente alle visite, perché trattandosi di una straniera, questo presupponeva che doveva fare un rapporto ai servizi segreti su quello di cui si era parlato, visto che ogni cittadino proveniente dall’occidente era indicato come una possibile pericolosa spia capitalista.

Mi mancano le serate in famiglia, quando ci riunivamo tutti, alla fine di un’altra giornata vissuta in quel mondo “protetto”, dove ognuno aveva una casa, un lavoro,  un progetto di vita chiuso tra tante limitazioni e divieti ma “sicuro”. Non mi mancano quei minuti in cui spiavo con un bicchiere appoggiato al muro mio padre e mia madre che, chiusi in bagno, aprivano l’acqua del rubinetto e cominciavano a parlare delle decisioni spesso assurde e sofferte che gli ordini arrivati da Bucarest li obbligavano a prendere, cose di cui non si poteva parlare liberamente. Presto avrei capito che il rumore dell’acqua copriva le parole “ribelli” di mio padre che sapeva che tutta la casa era piena di microspie… tranne il bagno appunto, una traccia di buonsenso forse in un mondo ormai impazzito!