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Gli orfani bianchi della Romania

Li chiamano orfani bianchisono bambini tristi, che crescono troppo in fretta, tra nostalgia e rabbia. Sono i figli delle badanti, partite per cercare fortuna altrove, donne altrettanto tristi, quelle che incontriamo per le strade delle nostre città mentre accompagnano qualche anziano aggrappato al loro braccio… e alla vita. In quella camminata muta, con lo sguardo spento, c’è spesso il dolore di una madre che ha dovuto abbandonare i propri figli lasciandoli ad un padre, un parente, un amico, un vicino di casa. A loro volta, molti mariti, spaventati dalle proprie responsabilità genitoriali, crollano tra depressione ed alcolismo, peggiorando una situazione familiare già precaria.

Secondo Unicef, in Romania, sono oltre 350.000 i bambini vittime di questa situazione!

Mi sono sempre chiesta quanto grande possa essere la disperazione che ti spinge a lasciare tutto e tutti, ad andartene, convinorfanibianchita però di fare la cosa migliore proprio per quelli che stai abbandonando. Siamo circondati da migranti, siamo gli eredi di generazioni di emigranti… ma queste sono mamme che partono senza i propri figli, che scelgono di salvare la vita della propria famiglia rinunciandoci spesso per sempre! 

Mi piace origliare quando le incontro negli aeroporti e raccontano la loro vita a qualche sconosciuto. Solo ascoltandole ti accorgi che non c’è risposta alla mia domanda. I racconti sono spesso interrotti da lacrime. Mi piace pensare che le badanti che incrocio negli aeroporti, a differenza di quelle dei giardinetti pubblici, siano più fortunate, significa che tornano a casa o che ci sono state, dopo due o tre anni, qualche giorno, quel poco che il loro lavoro le permette. Alcune hanno lasciato a casa bambini che ritrovano ormai adolescenti ribelli, incompresi, chiusi nella loro solitudine.

orfani2Maricica fa la badante in Italia da ben 17 anni, con la famiglia in Romania e, nel cuore, una figlia di soli 10 anni che, con i soldi spediti dalla madre, nel frattempo ha studiato, ha comprato casa e si è sposata diventando a sua volta mamma. Ora Maricica sta tornando a casa per il battesimo di suo nipote. La vita è andata avanti, imperterrita, scorrendo tra i fotogrammi sgranati delle video-chiamate di Skype, abbracci virtuali, sguardi mai limpidi e parole interrotte. La ascolto parlare, con la sua voce tremula, mentre dice che ha deciso di ritornare definitivamente in Romania, “ho perso tanti anni della vita di mia figlia, non voglio perdere anche mio nipote”.

La maggioranza dei bambini ha meno di dieci anni.

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Cara mamma, ti amo e mi manchi. Ti prego, torna!

Nella categoria “orfani bianchi”, le sfumature di sofferenza sono purtroppo varie: ci sono i bambini che crescono con un solo genitore o senza entrambi; c’è chi può comunque affidarsi ad una rete di familiari e chi resta completamente solo finendo in un istituto per minori. Più della metà vive nelle zone rurali, dove è più frequente che siano le madri a partire, contrariamente alle grandi città dove più spesso è il padre ad allontanarsi.

Da alcuni anni, lo stato rumeno obbliga le famiglie ad avvisare le autorità, 40 giorni prima della loro partenza, e di lasciare a qualcuno la tutela legale del bambino. Le procedure sono lunghe e chi prende in affido un minore deve avere determinate caratteristiche: sottoporsi ad un test psicologico, dimostrare la possibilità economica di ospitare… per questo il più delle volte si evita di farlo. Tante, poi, non dicono che vanno a fare le badanti, si vergognano perché in Romania sono ingegneri, insegnanti, hanno una preparazione universitaria. Così partono e basta. Di recente è stata approvata una legge che multa i genitori che vanno via senza avvisare le autorità, con l’unico l’effetto di creare una sorta di rete clandestina.

Gli psicologi che studiano il fenomeno degli orfani bianchi li hanno paragonati ai cosiddetti bambini con la chiave al collo, della dittatura comunista, che passavano il loro tempo nei cortili, sempre con la chiave di casa appesa al collo, in attesa che i genitori rientrasserchiave colloo la sera, dopo una giornata di lavoro. Quella generazione, spiegano gli esperti, è spesso la stessa che oggi emigra lasciando i figli in patria, pensando che, così come è stato per loro in passato, il compito del genitore sia principalmente quello di sostenere i figli da un punto di vista materiale. E’ una generazione che è stata abituata ad una distanza emotiva e a volte anche fisica dai genitori.

Faccio anche io parte di questa generazione, sono cresciuta anche io con la chiave al collo, che mi ricordo mostravamo con orgoglio, perché per noi era sinonimo di responsabilità, di fiducia, di autonomia, a 6 anni eravamo abbastanza grandi per poter tornare a casa da soli,  aprire la porta, riscaldarci il pranzo, mangiare da soli o con i fratelli, fare i compiti,  scendere a giocare, chiudere la porta dietro di noi, per poi riaprirla… Non concordo con la teoria degli esperti e il loro paragone con gli orfani bianchi di oggi, ho riversato anni di carenze affettive nell’amore per mio figlio e la mia famiglia, forse sono stata fortunata, ma questo ha poca importanza.

Mama te iubește, Mamma ti vuole bene

skypeE’ il nome di un progetto iniziato da Silvia Dumitrache, presidente dell’Associazione donne rumene in Italia. Tramite la rete delle biblioteche nazionali romene, molti paesi e città romene si sono popolate di postazioni Internet da dove i bambini rimasti soli possono collegarsi gratuitamente via Skype per parlare e vedere le mamme a distanza. Non basta il telefono per restare in contatto con le mamme, spiega Silvia, serve il contatto audiovisivo, per vedere come crescono i propri figli, soprattutto quando le donne non riescono a tornare a casa almeno una volta all’anno. Non è come essere a casa con il proprio figlio e dargli il bacio della buona notte. Però ci si può confidare, fare i compiti insieme, ci si può guardare negli occhi, i bambini possono andare a dormire con l’immagine della mamma.

Per molti dei bambini rimasti in Romania, soprattutto nelle zone rurali i contatti sono radi, subentra il senso dell’abbandono, la depressione, soffrono di crisi d’ansia, hanno disturbi dell’apprendimento, sviluppano un senso di apatia e di insofferenza al mondo. Considerata l’età, il suicidio è frequente (dal 2008 ad oggi,  in Romania,  ci sono stati 40 casi di suicidi), mentre, stanchi, questi bambini aspettano e crescono troppo in fretta.

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Cara mamma, ti voglio bene. Sono stata arrabbiata perché mi hai lasciato sola. Quando te ne sei andata mi sei mancata tanto!




“Soarele e unul, mama una este”

Gândul că va veni o zi,  în modul cel mai neașteptat și crunt, sau poate, dimpotrivă,  lent și dureros, în care nu voi mai fi copilul cuiva și nu voi mai avea unde să alerg,  să mă adăpostesc, într-o îmbrățișare învăluitoare,  care să mă apere de lume, gândul că va veni o zi, pentru care nu voi fi niciodată pregătită, în care nimeni nu va mai avea grijă de mine și nu mă va iubi,  total și necondiționat, nimeni nu va intra, în noapte,  și nu se va trezi,  în zori, întrebându-se dacă mi-e bine, acolo unde sunt, gândul că nu mă voi mai simți un copil iubit și protejat și voi fi doar o mamă grijulie, orfană de iubirea părinților… gândul acesta mă macină, mă înspăimântă, mă copleșește.

grigorescuDe fiecare dată când o văd pe mama, mi-o amintesc într-o toamnă îndepărtată,  în care a încetat,  brusc,  să mai fie copilul cuiva, în ziua în care a murit bunicul și în noaptea în care bunica i-a devenit, pintr-o cinică ironie a sorții, copil. Știu că se spune că, cine supraviețuiește unui accident vascular, se naște pentru a doua oară. O văd pe bunica agățată de brațul mamei mele, făcând pași mici, tremurători și temători, în jurul mesei, aceeași la care se așeza și mama o învăța să citească, să-și scrie numele, cu mîinile obosite și noduroase. Îi scria literele, una câte una, pe care bunica le repeta, cu voce stinsă, în mod greoi și indescifrabil. Timp de zece ani, bunica a rămas copil, iar mama a îmbătrânit lângă ea.  Atunci când le vedeam așezate la masă, deasupra unei foi cu litere scrise mare, de tipar, mă gândeam că imaginea aceasta ar putea fipietro annigoni o splendidă și dureroasă metaforă a unui cerc al vieții care se închide, cu iubire primită, iubire dăruită…

În astfel de momente, mă simt vinovată pentru tot timpul pe care l-am irosit, copleșită de prea multa iubire a mamei mele și a tatălui meu, judecând, criticând, ascunzând, spunând jumătăți de adevăruri sau minciuni, reproșând timpul în care nu erau lângă mine,  dar și cel în care prezența lor era sufocantă, învinuind pentru decizii luate în numele meu, pentru eșecuri, pentru vise abandonate…

Pe nimeni nu chinuim atât de mult așa cum o facem cu părinții noștri, iar ei continuă să ne iubească și să ne ierte. Uneori ne răzbunăm, infantil și inutil, ca atunci când eram mici și ne spuneau să facem un lucru,  iar noi făceam tocmai pe dos. Adolescenți fiind,  descoperim că,  făcând pe dos,  îi supărăm și, în mintea noastră imatură,  îi pedepsim, așa că facem tocmai ceea ce știm că nu vor să facem, ne îndrăgostim de cei care suntem siguri că nu le sunt pe plac, suntem îndărătnici și stăruim în greșeli, vrem să stăm cât mai departe de ei, dar ne întoarcem mereu acasă, suntem rebeli și nestăpâniți.picasso madre e hijo Vom înțelege, mai devreme sau mai târziu, că singura formă de rebeliune,  care nu poate duce la schimbarea unei ordini existente, este cea împotriva părinților noștri, pentru că iubirea lor e rezistentă, e invincibilă, e invulnerabilă, chiar dacă noi ne încăpățânăm să fim,  pentru ei,  un fel de călcăi al lui Ahile, punctul care îi face să se simtă fragili și imperfecți. Noi îi vrem perfecți, de fapt, îi vrem doar altfel, sau ca părinții altora, și nu înțelegem că ceea ce îi face să fie unici e tocmai iubirea imensă cu care ne înconjoară, ne sufocă, ne protejează.

Apoi, devenim noi înșine părinți. Ne dăm seama că am fost, adesea, niște copii greu de îmblânzit și de mulțumit, că am fost, de multe ori, nemiloși și nedrepți,  dar credem că am învățat din propriile greșeli și din cele ale părinților noștri și că noi vom fi niște părinți perfecți,  sau mai buni. Creștem și noi, odată cu copiii noștri, și începem să înțelegem că e al naibii de greu să fii părinte, că există puține reguli scrise si o infinitate nescrise, că nu e întodeauna suficient să fii bună cu copilul tău,  ca să fii considerată o mamă bună, că nu e atât de simplu pe cât ni se părea nouă, atunci renoircând eram copii, să fii autoritar, ferm, intransigent și deopotrivă, blând, tandru, răbdător și iertător. Ca părinți, facem greșeli, în care stăruim, uneori, așa cum o făceam, copii, dar e rândul nostru să fim judecați, criticați, “pedepsiți”, de proprii noștri copii,  care ne reproșează că suntem prea prezenți sau prea absenți, că suntem prea autoritari sau prea democratici, că îi sufocăm cu dovezile de iubire sau că suntem prea reci, că suntem nedrepți și incapabili să-i înțelegem, să le descifrăm mintea și sufletul prea întortocheate.

Nu există un secret miraculos al echilibrului dintre părinți și copii, așa cum nu există reguli care să ne garanteze că vom fi părinți perfecți. Facem greșeli din prea multă iubire, așa cum iertăm din prea multă iubire. Repetăm același erori pe care le-au făcut părinții noștri,  pentru că iubim așa cum au făcut-o ei, total și necondiționat. Atunci când ne dăm seama de asta, înțelegem,  în sfârșit, că au fost părinți buni, pentru că ne-au învățat singurul lucru care contează cu adevărat, și anume, să iubim.

tonitzaBăiatul meu e vădit stânjenit,  când îl sărut pe obraji, în fața școlii, înainte de a intra în clasă, așa că sunt nevoită să-i dau un pupic grăbit, din mers, și să-i spun, șoptit, ti voglio bene. Prefer să-și amintească, peste ani,  că se simțea stingherit de o mamă excesiv de tandră,  dar că era iubit.

Până atunci, însă, în fiecare an, de Ziua Mamei ( care se sărbătorește, în Italia,  a doua duminică din luna mai) îi place să-și amintească niște versuri dintr-un cântecel pe care i-l cântam mereu, atunci când îl adormeam: Mama coace pâine, soare în ferestre, soarele e unul, mama una este!

Textul acesta l-am scris gândindu-mă la toate mamele, cunoscute și necunoscute, care iubesc și iartă în fiecare clipă a vieții lor.

 




Il genocidio armeno “sussurrato”

In quarta elementare, mio figlio ha dovuto scrivere un tema sull’olocausto e raccontare, a parole sue, cosa sa del genocidio ebreo. Ha scritto 6 pagine, in cui ha parlato delle deportazioni, dei campi di concentramento e di sterminio, delle leggi razziali e del nazismo,  dello Shoah e della Notte dei Cristalli, dei quasi 5 milioni di ebrei morti. Poi ha fatto un elenco dei libri e dei film che trattano questo tema, molti di quali li aveva visti insieme a me o al padre. Ha detto che l’ha commosso particolarmente Jakob il Bugiardo e il Bambino con pigiama a righe, ma anche Il Pianista e la Chiave di Sara. Prima di concludere ha aggiunto: “Ricordiamo che nella storia c’è stato un altro genocidio, quello del popolo armeno, alla finil libro dei sussurrie del novecento e poi nel 1915, in cui sono morte 2 milioni di persone” e citava un libro di cui gli avevo parlato molto e dal quale gli avevo letto alcune pagine, Il libro dei sussuri, di Varujan Vosganian, un amico di famiglia e, come ha scritto lui, “un amico di mamma”.

Lo so che sembra difficile da credere che un tema sull’olocausto di un bambino di 9 anni possa fare riferimento al genocidio armeno,  ma vi assicuro che è tutto vero e che, purtroppo, le maestre non hanno apprezzato tanto il suo lavoro, disorientate da una complessità che non si aspettavano.

Papa Francesco ha dichiarato pubblicamente, a 100 anni dal suo inizio, nel 1915,  che il primo genocidio del ventesimo secolo è stato quello del popolo armeno, il primo popolo cristigenocidio armenoano, e che furono uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi. Mi sono ricordata il tema di mio figlio, ma soprattutto Il libro dei sussurri, uno dei più bei libri che abbia mai letto, una delle rare testimonianze letterarie sul destino tragico del popolo armeno. L’autore, Varujan Vosganian,  è una personalità marcante, originale e complessa,  della società rumena: politico, economista, matematico, professore universitario e poeta, è stato per due anni ministro delle Finanze in Romania ed è attualmente membro del Senato. Lo conosco da quasi vent’anni, so che molti di questi li ha passati a scrivere il suo libro, risultato di un lungo, sofferto e tormentato processo catartico, scavando nella memoria alla ricerca dolorosa dei suoni, gli odori, i fuochi, i motti, i ricordi, i sogni, i sacri cerimoniali, i rimpianti, i fantasmi, i racconti della sua famiglia di armeni e del suo popolo.

foto anticaVarujan Vosganian è nato nel 1958, già nella seconda generazione degli armeni della sua famiglia venuti al mondo in Romania,  dopo la fuga dall’Anatolia delle origini. Una storia vecchia di trecento anni, di una famiglia di principi, monaci, commercianti, pastori e intellettuali,  ricostruita tramite le vicende narrate al piccolo Varujan dal nonno Garabet, il cultore della memoria della sua famiglia e del suo popolo.   Si tratta prima di tutto della tragedia del popolo armeno, ma anche della tragedia del popolo romeno, di tutti coloro che hanno subito la storia, invece di viverla, ha detto l’autoreTutti i personaggi sono reali, gli accadimenti che hanno vissuto sono reali e proprio per questo Il libro dei sussurri appare così inverosimile, proprio perché è reale. “Non mi sarei arrischiato a scrivere di tutto questo, se non vi fosse stato un fondo di spietata realtà”, dice Vosganian.  E’ una storia che supera i confini della Romania, perché gli armeni, come gli ebrei, sono sempre stati “erranti”, sospinti da persecuzioni e intolleranza.genocidio Non è un romanzo storico, né un memoriale quello che intendeva scrivere l’autore, ma una specie di libro sacro, che viene sussurrato, ascoltato e poi riscritto. Un testamento, il resoconto di una promessa o di un’avverata predizione. “Ma che cosa sussurri?”, chiedeva il piccolo Vosganian al nonno Garabet dall’eloquio seducente. “Leggo”. “Come leggi? E il libro dov’è?”. “Non ne ho più bisogno. Lo conosco a memoria”, sentenziava enigmatico il vecchio. E il bambino, insoddisfatto: “Va bene, ma come si chiama questo libro? Chi l’ha scritto?”. “Forse tu, un bel giorno”.

Le prime parole del libro sono proprio quelle del nonno Garabet: “Non ci distinguiamo per quello che siamo, ma per i morti che ognuno di noi piange“. Lo stesso che,  di tutto il secolo in cui viveva, aveva capito solo che era difficile morire nella stessa terra in cui eri nato. 

I primi pogrom di fine Ottocento, il genocidio del 1915, le deportazioni e l’esilio, l’educazione europea e l’emigrazione in Romania, il collaborazionismo nazista, l’invasione dell’Armata Rossa, la dittatura di Ceaușescu, la rivoluzione anticomunista del 1989, sono tutti capitoli della grande saga storica e famigliare, ricostruita con lucidità e sofferenza, in una tonalità intima, profonda, grave,  sussurrata. Ho passato l’infanzia in un mondo di sussurri, scrive il narratore. Per il bambino che era, sempre in ascolto, il sussurro significava cautela, prudenza, sospetto, accortezza, ma anche tenerezza, preghiera, profezia.

spaniolaIl libro dei sussurri non si può raccontare o riassumere, perché è così vasto, così ricco, così fuori dal comune, con i suoi personaggi indimenticabili e le sue storie favolose, come quella di alcuni vecchi armeni che, per parlare liberamente, si nascondono in una cripta. O quella del piccolo Varujan che colleziona francobolli, ma ogni francobollo rappresenta un armeno in esilio. O la storia del nonno Garabet, il destinatario dei pacchetti misteriosi che contengono i cavallini di legno – e solo lui sa che ogni cavallino è un morto, una storia di una vendetta eseguita,  per non lasciar impuniti i responsabili dei massacri degli armeni.

Pubblicato nel 2009, Il libro dei sussurri ha ottenuto sin da subito uno straordinario successo di critica, tanto da essere considerato uno dei capolavori della letteratura romena post-comunista e da essere nominato come proposta rumena al premio Nobel.francese

Tradotto in 20 lingue, italiano incluso (pubblicato da Keller Editore), il libro sarà, il 21 aprile, il protagonista del Festival della letteratura di Berlino, nella giornata dedicata alla memoria del genocidio armeno, a 100 anni dal suo inizio.  Quel giorno, in più città del mondo saranno letti il settimo e l’ottavo capitolo del Libro dei sussurri,  un libro indimenticabile per non dimenticare, nella giornata mondiale della lettura.

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Pasqua ortodossa: uova rosse, quaresima nera e ragazze “annaffiate”

Da quando vivo in Italia ho dovuto adattare a modo mio il famoso detto “Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi”. In realtà, passo il Natale con i miei, italiani, e Pasqua con i miei, rumeni.  Perciò mi sento come due metà che formano un intero, mai perfetto, ma tutto sommato completo.

Dopo tanti anni ancora adesso, quando si avvicina Pasqua o Natale, mi si chiede se anche noi, gli ortodossi, le festeggiamo e cosa celebriamo, se è la stessa nascita di Gesù e la stessa Resurrezione. Cambiano ovviamente i rituali religiosi e le tradizioni ma il significato delle feste è praticamente lo stesso. La Pasqua Ortodossa in particolare, non si festeggia quasi mai nello stesso giorno di quella Cattolica.

Può capitare qualche rara coincidenza di date ma più spesso cade una settimana dopo la Pasqua Cattolica e qualche altra volta anche un mese dopo. La spiegazione è legata ai diversi calendari che sono riconosciuti dagli stati e dalle chiese. La Pasqua cattolica viene calcolata secondo il calendario gregoriano mentre quella ortodossa tiene conto del calendario giuliano (da Giulio Cesare). Inoltre, il calcolo delle date per la Pasqua tengono in considerazione le fasi della luna: luna piena dopo l’equinozio primaverile, per i cattolici, e luna nuova per gli ortodossi.

floriiQuest’anno, 2015, nella stessa domenica,  ho festeggiato la Pasqua cattolica e la Domenica delle Palme ortodossa, chiamata anche Duminica Floriilor, la Domenica dei Fiori, poiché non ricorda solo il trionfale ingresso di Gesù a Gerusalemme e i suoi giorni di Passione, ma anche la fioritura e il risveglio della natura. Il suo simbolo sono i rami di salice e coincide con l’onomastico di tutti quelli che in Romania hanno nomi di fiori. Per mio figlio, la confusione iniziale di festeggiare due volte Pasqua in giro di una settimana, si è trasformata nella consapevolezza di appartenere a una famiglia mista in cui Gesù risorge due volte, ma solo tecnicamente, per colpa della luna e calendari vari, incomprensibili per un bambino.

Per gli ortodossi, la Pasqua è la festa delle feste, tanto da non essere neppure inserita tra le dodici grandi feste dell’anno liturgico, occupa di fatto un posto a parte.  E’ una festa molto sentita, vissuta con intensità e sacrificio, che prevede una lunga e difficile quaresima (che dura 7 settimane), nella quale molti fedeli decidono di non mangiare carne, uova, latticini e bere alcol, per tutti i 48 giorni, intesi come purificazione assoluta del corpo e dello spirito. Alcuni scelgono anche di seguire quella che viene chiamata quaresima prohodul-domnuluinera, che prevede un digiuno assoluto, senza cibo ne acqua, da giovedì santo fino a sabato notte, dopo la messa di resurrezione. L’ultima settimana, Săptămâna mare, la Grande settimana,  è anche di lutto, di meditazione e di sofferenza. Le messe che si svolgono questi giorni sono particolari: il Giovedì Santo vengono letti i 12 vangeli, uno per ogni ora del giorno, mentre il Venerdì Santo, o Venerdì nero, come lo chiamano i credenti, si celebra la messa di requiem, Prohodul, una messa funebre che include un momento particolarmente emozionante, in cui i fedeli circondano la chiesa, con le candele accese, ripercorrendo simbolicamente la Via Crucis, con le sue 14 stazioni.  Al nuovo ingresso nella chiesa, i credenti passano sotto l’epitaffio, un pezzo di stoffa, mantenuto da quattro uomini, che porta ricamato o dipinto la sepoltura di Cristo.

inviere luminaLa messa della risurrezione inizia sabato a mezzanotte, quando nelle chiese si spengono le luci e il prete esce dall’altare portando la candela accesa e invita tre volte i fedeli ad attingere la luce con le loro candele: “Venite a prendere la luce! (Veniţi de luaţi lumină!). Questo invito ha un valore simbolico sia per la funzione liturgica, che prosegue poi anche fuori la chiesa, sia per i fedeli che si passano l’un l’altro la fiammella, un gesto che crea un avvicinamento spirituale tra le persone. Dopo il rituale iniziale il sacerdote si rivolge ai fedeli dicendo “Cristo è risorto!” (Hristos a Ȋnviat!), e loro rispondono “E’ veramente risorto!” (Adevărat a Ȋnviat!). Tutta la messa viene accompagnata dai canti bizantini, intonati non solo dal coro ufficiale della chiesa ma anche dalla folla. I fedeli tornano a casa con la candela accesa, perché si dice che coloro che riescono a tenere accesa sempre la luce presa in chiesa fino all’arrivo a casa avranno un anno benedetto.

La tradizione vuole che,  ritornate dalla messa,  le famiglie si siedano intorno alumanaril tavolo bandito e, prima di iniziare lo “strano” pranzo pasquale nel cuore della notte, mangino il pane benedetto imbevuto nel vino, come simbolo del corpo e del sangue di Cristo. In mezzo al tavolo c’è il simbolo pasquale per eccellenza: le uova rosse. Colorare le uova di rosso è un rituale che simboleggia il sacrificio, il sangue di Cristo. Una leggenda racconta che, dopo la crocifissione di Gesù, i rabbini e i farisei abbiano organizzato un pranzo festivo e uno di loro abbia detto: “Quando questo gallo che mangiamo ritornerà in vita e queste uova diventeranno rosse, solo allora Gesù risorgerà“. All’improvviso, come per miracolo, le uova si sarebbero dipinte di rosso.

L’uovo, già di per sé simbolo di vita e di fertilità, è sempre stato visto come segno di resurrezione. La tradizione contadina dice che le uova di Pasqua hanno il potere speciale di proteggere gli animali della fattoria e la famiglia che vi abita.  Infatti, è paste romaniavietato buttare via il guscio, che invece viene seppellito alla radice degli alberi, per dare fertilità alla terra. Nei villaggi, la mattina di Pasqua la gente si lava il viso in un catino d’acqua con un uovo rosso e una monetina dentro,  per essere sani e ricchi tutto l’anno.

Inizialmente, le uova venivano colorate solo di rosso,  coi pigmenti delle foglie di cipolla, ma oggi sono dipinte in colori vari e si ritrovano su tutti i tavoli per essere donate, nel giorno di Pasqua. La tradizione delle uova dipinte, così antica, è stata portata al rango di arte da molti artigiani rumeni,  che dipingono le uova in maniera fantasiosa, con simboli tradizionali o moderni. In Romania ci sono vari centri artigianali che conservano questo mestiere ancora vivo, e sono stati addirittura aperti vari musei delle uova dipinte, încondeiate. Spesso sono delle vere e proprie opere d’arte.

oua rosii 3Le uova  colorate sono anche i protagonisti di una tradizione popolare caratteristica, molto amata dai bambini: la battaglia delle uova.  Il pranzo pasquale inizia proprio con questa strana gara delle uova: ognuno impugna in mano il proprio uovo sodo, lasciando la parte appuntita dell’uovo verso l’alto, scoperta. A questo punto si colpisce l’uovo dell’avversario e viceversa. Il grido di “battaglia” è: “Il Cristo è risorto!” e “Davvero è risorto!”.  Dal primo uovo che si rompe devono mangiare tutti i membri della famiglia, perché si dice che in questo modo rimarranno sempre insieme. Dopo innumerevoli sfide con i commensali, vince l’uovo più resistente, ovvero colui che a fine del giro avrà l’uovo meno danneggiato. Gli anziani credono che il proprietario di questo uovo sia il più forte ed è quello che resisterà maggiormente alle malattie. Una variante di questa tradizione prevede che il perdente, ovvero quello con l’uovo maggiormente danneggiato, debba poi mangiare tutte le uova in gara. Nonostante si tratti di una gara piuttosto impegnativa per il fegato, sono ancora in molti a rispettarne le regole!

A dispetto del motto italiano, la Pasqua romena si passa per tradizione in famiglia. Uova sode a parte, il menù prevede una zuppa acida chiamata ciorba, insalata, sottaceti, agnello al forno o arrosto e un particolare polpettone chiamato drob,  una specie di coratella d’agnello, fatta con le frattaglie, pane umido, molto prezzemolo,  aglio e cipolla verde. I dolci tipici sdrobono la pasca, una torta a base di pasta frolla, uvetta sultanina e ricotta, che viene preparata solo una volta all’anno,  per la Pasqua appunto. Ha una forma circolare, per simboleggiare la culla di Gesù e sopra viene fatto il segno della croce.  Un altro dolce casalingo che si ritrova sulla tavola di Pasqua è il cozonac, una sorta di panettone fatto in casa, riempito con semi di papavero o noci. In cucina, nella settimana santa, si radunano le donne della famiglia che di generazione in generazione imparano le ricette tradizionali, con un sentimento di profonda sacralità oltre e calore domestico.

Il Lunedì di Pasqua, l’italiana “pasquetta”, si svolge un’altra antica tradizione, soprattutto in Transilvania, al nord, chiamata udatul (l’annaffiare). Nei villaggi le ragazze e le donne vengono  “annaffiate” con acqua di sorgente. Nelle città invece, dove le sorgenti scarseggiano, si utilizza del profumo, augurio di bellezza, freschezza, salute. Che tutte le “donne siano tutto l’anno come la primavera”!  Dalle prime ore del pomeriggio, le città si riempiono di gruppi di uomini e ragazzi, che suonano alla porta della donne, muniti di bottigliette di profumo, pronunciando frasi del tipo: “Ho sentito che qui c’è un fiore, sono venuto ad annaffiarlo“, e le ragazze vengono così profumate. Ai ragazzi gli si offre un bicchiere di grappa e un dolce. Il rituale si protrae fino alla tarda serata, quando, per via dell’alcol, sono in pochi a ricordarsi la strada di ritorno.

La  grappa in Romania non si rifiuta, è segno di malaugurio…

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