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Un Natale stupefacente…in Romania!

Immaginate che per qualche strano intreccio del destino vi troviate in Romania, a Natale, diciamo in Transilvania. Ho scelto questo luogo non solo perché ci sono nata, o perché gli inverni là,  tra i boschi e le montagne,  sono molto pittoreschi,  ma per il semplice motivo che è la regione dove potete vivere ancora le tradizioni natalizie rumene più autentiche.  Supponiamo però che non sappiate niente o quasi niente delle tradizioni di questo paese,  che non sappiate nemmeno se i rumeni ortodossi festeggino il Natale o come lo facciano.  La gente per strada si dice parole incomprensibili, come Crăciun fericit, sărbători fericite, sarmale, cârnaț, cozonac, colinde, plugușor, praznic, che non si avvicinano neanche lontanamente alle sonorità latine dell’italiano. Nei centri commerciali, negozi o ristoranti si ascoltano le incomprensibili colinde, una musicalità lenta, dal testo antico e misterioso…vi sentireste giustamente smarriti e avete bisogno di qualcuno che vi aiuti a passare un Natale indimenticabile. Eccomi qua, sarò la vostra guida immaginaria!

Per iniziare, una breve lezione di rumeno.  In tutte le lingue neolatine, francese, spagnolo, portoghese o italiano,  c’è nella radice della parola Natale, il senso di nascita,  ma non nel neolatino rumeno, troppo facile! Per noi “Natale” si dice “Crăciun”. Per i linguisti, la parola Crăciun deriva da un termine molto antico, di origine tracica, balcanica,  cãrciun” che significava il tronco d’albero e che veniva e viene ancora oggi bruciato la sera durante la notte del solstizio d’inverno per dar forza al sole intorpidito nel suo nuovo percorso verso la rinascita.  Per concludere la breve lezione di rumeno, per fare gli auguri di Natale e di buone feste, le frasi più adatte sono Crăciun fericit (Natale Felice) e Sărbători fericite (Feste felici). 

L’albero di Natale si addobba anche in Rpadureomania, ma nelle case non lo troverete prima della vigilia (qui in Italia è sempre una lotta tra la mia famiglia che lo vuole l’8 dicembre e me che lo vorrei molto più tardi). I bambini lo preparano il pomeriggio del 24, giusto in tempo per i regali che lascerà sotto l’albero Babbo Natale (Moș Crăciun). Nei miei primi 4 anni in Italia sono rimasta fedele alla mia tradizione e addobbavo l’albero solo alla vigilia, non mi abituavo all’idea che a fine novembre c’era qualcuno che lo facevo già. Venivo dalla Transilvania, dove le temperature scendevano a volte anche a 40 gradi sotto zero,  nevicava per giorni interi, gli inverni erano infiniti e il Natale arrivava sempre con montagne di neve.  Da bambina, la mattina della vigilia andavo con mio nonno nel bosco a prendere un bell’abete, su una slitta tirata dai cavalli, che facevano fatica a farsi strada tra la neve che scendeva senza fermarsi mai. Portavamo a casa l’albero ancora pieno di neve ghiacciata e il profumo di resina e bosco che avvolgeva il tepore della casa era inebriante…
Capirete quanta fantasia mi è servita per immaginare un Natale guardando fuori dalla finestra gli aranci colmi di frutta, il mare, il sole, a temperature superano abbondantemente lo zero…   L’albero di Natale a fine novembre…. mah!!!icoana

Il 24 però l’albero sarà lì, in ogni  casa rumena. Il presepe, invece, non fa parte della tradizione natalizia ortodossa e perciò nessun “bambinello” e nessuna grotta vengono raffigurate nelle chiese rumene se non nelle icone bizantine che hanno come tema la nascita di Gesù.
Fanno eccezione le chiese greco-cattoliche, di rito bizantino, che seguono i riti religiosi cattolici.

Visto che è Natale e che sicuramente riceverete qualche regalo, un consiglio utile per quanto riguarda le usanze rumene: non aprite mai un regalo davanti alla persona che ve l’ha donato, è segno di maleducazione. Pensate che al mio primo Natale in Italia sono passata da maleducata proprio perché non scartavo i regali, li prendevo, ringraziavo gentilmente (e con troppo poco entusiasmo) e poi li mettevo via, per quando sarei tornata a casa. Mia mamma mi ripeteva sempre, quando ero piccola, che aprire un regalo subito è come dimostrare una curiosità inaccettabile per una persona educata.

Se aspettate che qualcuno vi inviti a casa sua per il cenone della vigilia,  potrà non succedere mai, piuttosto saranno gli altri ad avvertirvi che passeranno da voi, in serata o in nottata, per portarvi la buona novella della nascita di Gesù, cantando. In Romania, se dici Natale,  dici colinde,  i testi epici rituali,  cantati, che evocano la Nascita di Gesù.  Vengono interpretati soprattutto dai giovani che, vestiti in costumi tradizionali e spesso indossando maschere tradizionali, narrano cantando la nascita di Gesù e l’arrivo dell’anno nuovo. Sono canti densi di simboli rituali. I colindători (i cantanti delle colinde) sono spesso accompagnati da strumenti musicali e vanno di casa in casa per augurare un anno buono, felice e prospero. In cambio ricevono soldi, dolci o frutta e, per tradizione, non escono dalla casa che li ospita senza aver bevuto un bicchiere di grappa o vino… segno di prosperità, si intende! Questa tradizione è presente non solo nelle campagne ma anche nelle grandi città dove non è raro vedere, presso la porta di un condominio, un gruppo copii colindeche suonando ai campanelli chiedono: “Ricevete o no i colindatori?”. Famiglie intere si riuniscono dopo cena e vanno a trovare amici o parenti e cantano alle loro porte i canti natalizi.  Le stesse canzoni risuonano per le strade anche nella notte di fine anno, perché nell’anima dei rumeni vive la convinzione che nel momento del passaggio tra un anno e l’altro, i Colindători  allontanano il male e la negatività dalle loro case portando fortuna e prosperità.

Il senso profondo della notte della vigilia è proprio quello di condividere con l’intera comunità, e non solo con la famiglia, la festa di Natale. Il cenone natalizio non dura molto proprio perché si vuole passare più tempo fuori casa, per le strade, cantando con gioia, in una specie di incontro magico tra te e il mondo intero sotto il segno della nascita di Gesù. Il cenone è brmascatieve,  ma molto ricco. Il protagonista è, suo malgrado, il maiale. In Romania si rispetta ancora, soprattutto in campagna,  la tradizione del sacrificio del maiale nel giorno di Ignat, il 20 dicembre,  tradizione unica nel mondo cristiano, con radici rituali degli antichi Daci, nel giorno del solstizio. Nella loro religione il maiale era sacrificato perché era visto come un simbolo della divinità delle tenebre, che aveva la forza di indebolire la luce del sole nella più corta giornata dell’anno, il solstizio d’inverno. Per venire in aiuto del sole la gente ammazzava il maiale e la carne di quest’animale era un cibo che aveva la forza necessaria per salvare il sole. Non a caso, dopo questo giorno, la luce aumentava gradualmente e il Natale diventava una festa della luce e della vita.

Non sono convinta che tutte queste motivazioni antropologiche possano aiutare a capire il significato di un rituale apparentemente barbaro in cui l’animale viene sgozzato davanti a tutta la famiglia, compresi i bambini, in un’atmosfera di grande festa. Dopo aver pugnalato l’animale, lo si copre con della paglia e si fa il fuoco per distruggere il suo pelo. Successivamente il maiale è lavato con acqua, pulito con un coltello e tagliato (prima di tagliarlo si fa il segno della croce sulla fronte dell’animale e si mastidice “Dio, aiutaci a mangiarlo, salute!”). Qualche volta, la pulitura è preceduta dalla tradizione di coprirlo con una coperta in modo che i bambini possano salirci sopra, perché si dice che in questo modo cresceranno belli e sani.  Le donne preparano la carne facendo tutti i prodotti specifici e nella giornata di Ignat imbandiscono la tavola chiamata pomana porcului (una specie di dono per l’anima dell’animale),  un pranzo a base di carne fresca di maiale. Gli invitati sono le persone che hanno aiutato a sacrificare il maiale e qualche vicino.  Tutti i pezzi del maiale, dalle orecchie fino alla coda,  vengono preparati. Le orecchie, pulite e salate, vengono offerte ai bambini. Sempre in questa giornata si preparano i cibi tradizionali per il giorno di Natale: cârnați (salsiccia), caltaboși (un tipo speciale di salsiccia), jumări (ciccioli), slănină afumată (lardo affumicato). Alcune di queste specialità si fanno affumicare secondo metodi trasmessi da una generazione all’altra. Dalla carne di taiatul porculuimaiale si preparano anche sarmale (involtini di carne macinata in foglia di verza o di viti),  piftie (gelatina all’aglio contenente parti della testa o piedi) e arrosto di maiale.  Tutto il menù di Natale è a base di carne di maiale, non facilmente digeribile, ma sicuramente molto saporito. Sulla tavola troverete anche il dolce tradizionale, cozonac, una specie di panettone farcito con noci o semi di papavero e zucchero.
Vi consiglio quest’ultimo, molto squisito, che accompagnato alla grappa, vi garantirà davvero un Natale… stupefacente!




Ion Țiriac, 2 miliardi di dollari e 33 figli

Il portale Celebrity Networth stima ogni anno i patrimoni degli sportivi ed elegge tra questi il più ricco.  Lo sportivo più ricco del mondo non è, al momento,  Roger Federer, Michael Jordan o Tiger Woods, come si potrebbe pensare, ma un rumeno, Ion Țiriac, ex tennista e oggi imprenditore di enorme successo.  Si calcola che il patrimonio di Țiriac supera i 2 miliardi di dollari, il doppio di Michael Jordan per intenderci!
Nel 2007,  è diventato il primo miliardario rumeno e Forbes lo ha inserito tra le 1000 persone più ricche del mondo occupando anche la nona posizione nella classifica negli scapoli più ricchi del pianeta.

La sua fama non è proporzionale alla sua ricchezza e proprio per questo motivo la notizia che sia lui lo sportivo più ricco del mondo ha sorpreso tutti. A questo punto è più che legittima una domanda semplice: chi è Ion Țiriac?


tiriac2Come tennista, negli anni ’70, non è mai stato il numero 1 mondiale. Il suo anno migliore fu il 1968, quando fu stimato come ottavo giocatore del mondo.  I successi maggiori li ha ottenuti in doppio, insieme all’amico e connazionale Ilie Năstase  (che è stato numero 1 mondiale nel 1973), col quale ha formato una delle coppie più forti degli anni’70. Insieme hanno vinto più di 20 trofei, alcuni sul campo di Roland Garros. Non era un giocatore elegante, anche perché inizia la sua carriera sportiva come giocatore di hockey sul ghiaccio e questo si notava nel modo in cui si diceva che “impugnava la racchetta come un martello”. Era soprannominato sul campo da tennis  come conte Dracula, non solo per le sue origini transilvane (è nato a Brașov, nel 1939), ma soprattutto per il suo volto severo e misterioso, dietro il quale si nascondeva invece una grande ironia.  Disse una volta:  “sarei stato il miglior giocatore del mondo, se solo avessi saputo giocare a tennis“. Le qualità tennistiche di Ion Țiriac non erano certamente di primo livello. Spesso però sopperiva col cuore e con la furbizia, il mestiere, talvolta persino con l’aperta scorrettezza ed antisportività. Non mancano le leggende su di lui:  si racconta di come staccasse a morsi i pezzi dei bicchieri, tradendo le sue origini di “giostraio”, di quando minacciava fisicamente con la racchetta qualche giornalista per un articolo sgradito o ancora di quando tracannava in scioltezza bicchieri su bicchieri di whisky. 

beckerDopo il ritiro dal tennis professionistico, negli anni ’80, diventa un uomo d’affari in Germania, dove comincia ad allenare e a fare da manager  a molti campioni, come Mary Joe Fernandez, Guillermo Vilas, Marat Safin,  Steffi Graf,  Goran Ivanisevic e Boris Becker. Quest’ultimo diventerà, grazie al suo manager e allenatore, il più grande tennista degli anni ’80 e ’90. La leggenda narra che un giorno Ion Țiriac  si presentò in una Rolls Royce a casa di un giovane molto promettente di 17 anni, per impressionare la sua famiglia e convincerla a lasciare che fosse lui ad allenarlo: la famiglia del giovane Boris Becker accettò e Țiriac dimostrò di avere già grande fiuto per gli affari.

Con la caduta del regime comunista, nel 1989,  inizia vari affari in Romania. Come manager e imprenditore ha mostrato un talento eccezionale per il business: ha fatto investimenti nel ramo bancario ed assicurativo, ha fondato una banca e una compagnia di assicurazione che portano il suo nome, una compagnia aerea e tante altre attività secondarie, nel settore immobiliare. Un aneddoto di colore: recentemente si è lamentato durante un’intervista della mancanza di manodopera nei suoi cantieri, dove ha dovuto assumere cinesi e indiani visto che “tutti i rumeni lavorano in Italia”!

Nel 2002,  ha costruito a Madrid il parco giochi del tennis mondiale, diventato uno degli impianti più importanti del circuito ATP e, dal 2008, diventando direttore del Mutua Madrid Open. Nel 2013, L’International Tennis Hall of Fame gli ha dedicato una stella, come massimo riconoscimento del suo talento come manager sportivo. 

Ion Țiriac è, senza dubbio, un personaggio intrigante, con il suo volto misterioso, indecifrabile, dei grandi baffi che nascondono il viso e occhiali da sole scuri di cui non si separa mai. In Romania è una specie di guru della finanza, dell’economia, una persona da cui si va a chiedere consigli di tutti i generi: affari, investimmadridenti, tennis, politica, donne… Per quanto riguarda le donne, è riconosciuto come un tombeur de femmes, un grande seduttore, ammette che gli sono sempre piaciute e ha confessato, non molto tempo fa,  di avere ben 33 figli, di cui solo 3 legittimi!  Ha aggiunto anche che quando sarà il momento di dividere la sua cospicua eredità non farà favoritismi: “Dividerò tutto in parti uguali, anche se penso che un figlio non debba ricevere niente dal padre; altrimenti come potrebbe nascere in lui lo spirito competitivo?”. 

Ogni anno è corteggiato dai partiti politici che gli propongono di candidarsi per vari incarichi.  L’ultima proposta è arrivata nella primavera del 2014, quando gli è stato chiesto di candidarsi per diventare presidente della repubblica. La sua risposta è stata più che chiara : “Non sono stato capace di essere eletto presidente nella mia famiglia, come potrei chiedere di diventarlo per un intero paese?”. 




La Rivoluzione in un tappeto

La rivoluzione che ho vissuto 25 anni fa ha per me l’odore del fumo acre, denso e intenso che si sprigionava dalle pagine dei libri squarciati dai proiettili. Tanti libri con pagine sfregiate, un piccolo vuoto in mezzo, un cerchio perfetto che racchiudeva tra i suoi margini bruciati le parole mancanti di una storia, ancora non scritta, di un popolo, svegliatosi in un giorno freddo e cupo di dicembre per gridare in piazza la propria disperazione, incurante dei carri armati e dei soldati. Tanti di loro, giovanissimi come me, con i fucili pronti a sparare, combattuti tra il dovere, la paura e la voglia di abbracciare gli stessi vicini e parenti che li fronteggiavano dall’altra parte della barricata.  Poi, c’è la storia individuale della mia famiglia, che non ha niente di eroico, apparentemente. Uomini e donne travolti dagli eventi, sopraffatti, bambini ancora troppo bambini per poter capire che il mondo intorno stava cambiando e avrebbe cambiato anche loro, senza pietà e senza via di ritorno. Sulle vicende collettive si scrivono trattati di storia, su quelle individuali, romanzi.

La storia che sto per raccontarvi comincia con un pezzo di tappeto ritrovato tra le macerie fumanti della propria casa,  uno zerbino, da cui ripartire e ricostruire una vita d’amore cancellata dalle fiamme e dall’odio.

revolutie grupIn un periodo in cui buoni e cattivi si alternavano e si confondevano, i colonnelli della quinta Direzione dei servizi segreti rumeni, la Securitate, quelli del Potere per intenderci, il 21 dicembre del 1989 furono arrestati e condannati –  insieme ad altri dirigenti – al carcere. Mio zio era tra loro. Tutta la sua vita, le certezze e le incongruenze di una generazione comunista, la durezza e la fragilità di un regime quarantennale furono congelati in un attimo. Non si sa dove fu portato, né cosa gli fu fatto… niente, né allora, né oggi.
L’unica cosa certa è che dopo 182 giorni di reclusione, le porte della sua cella, con la stessa semplicità con cui erano state chiuse,  si riaprirono, catapultandolo in una Romania che nel frattempo non era più la stessa. 182 giorni senza alcuna notizia della famiglia, degli amici, senza nessun legame con l’esterno. La sua mente era rimasta lì, alla mattina del 21 dicembre, poco prima della grande manifestazione popolare convocata dal dittatore Ceausescu, quando – intuendo gli eventi che sarebbero successi – portò via lontano moglie e figli dalla piazza Palatului, quella della rivoluzione. La loro casa era a una manciata di metri dalla storia, a Bucarest, proprio di fronte al Comitato Centrale del Partito Comunista, sede del governo. Le centomila persone radunate che avrebbero dovuto consolidare il traballante regime agli occhi del mondo si trasformarono in un piano suicida senza ritorno.

Le immagini in diretta Tv ci mostravano i combattimenti tra le forze dell’ordine e il popolo, poi, quando i militari passarono dalla parte dei manifestanti,  tra l’esercito e i misteriosi gruppi chiamati “cellule terroriste” che difendevano il regime e il dittatore.

La manipolazione mediatica, alimentata dalla più clamorosa disinformazione, è nata in quei giorni, nella Romania libera e democratica.  Nessuno seppe mai chi erano questi  “terroristi”, se esistevano veramente e, visto che nessuno fu arrestato né processato, la loro identità resta avvolta nel mistero ancora oggi. Si parlava di soldati libanesi, iracheni o siriani, forze speciali addestrate dal regime per intervenire in quei giorni tormentati. Le notizie erano frammentate e confuse. Incollati alla diretta Tv assistevamo a scene di delirio filtrate da disinformazione, sullo sfondo si vedeva la casa dei miei zii che andava in fiamme. Dalle poche e frammentarie notizie, avevamo appreso grazie ad una sorta di passaparola che mio zio era stato arrestato e che mia zia con i figli si era rifugiata da amici fuori città.
Mio padre era uscito di casa la mattina precedente e non era ancora tornato. La gente invadeva la strade delle grandi e piccole città del paese, gridando la propria voglia di libertà. I giovani universitari, comprese le ragazze –  che il regime aveva addestrato militarmente per altri scopi –  si organizzavano in posti di blocco armati per difendere le loro città dagli attacchi dei presunti terroristi.
Fu la più surreale delle mie esperienze,  come se mi fossi frantumata in pezzi, guardando dal di fuori l’interno che si decomponeva. Ero sopraffatta dagli eventi. Da un lato c’era l’euforia contagiosa per la caduta del regime, si era finalmente avverato il nostro sogno di libertà: la libertà di parlare, di viaggiare, di protestare, di scegliere, di sbagliare, di vivere!  Dall’altro c’era anche un’angoscia sempre meno latente, quella di un futuro ignoto e che ignoravo quanto clemente sarebbe stato con mio padre, figlio del Partito.

Sono scesa in strada anche io con gli universitari, imbracciando il mio fucile; per giorni abbiamo difeso la città, in pattuglie improvvisate, fermando le auto, controllando i portabagagli, affiancando l’esercito nella protezione degli edifici pubblici. Non rientravamo a casa neanche di notte, ci sentivamo eroi del nostro nuovo tempo! Le notti erano lunghe e dure, arrivavano spesso notizie su gruppi di terroristi che stavano entrando in città e dovevamo rimanere svegli e vigili.  Ma non era solo la paura del “nemico” a tenermi sveglia, piuttosto erano stati d’animo contraddittori,  ero libera, ma avevo paura, per tutti i miei cari che stavano già pagando per gli errori di un passato sbagliato,  punito dalla storia.tancuri

Ero una rivoluzionaria della Rivoluzione che aveva sgretolato la mia famiglia, portato in prigione mio zio e allontanato per giorni mio padre, di cui non sapevamo ancora nulla. Pattugliavo le strade e avevo il terrore di scorgerlo in qualche auto dell’esercito, catturato insieme ai dirigenti del partito.  Quando poi una mattina finalmente tornò, si chiuse nel silenzio per giorni, nella sua stanza, con i suoi pensieri, i suoi dubbi, le sue insicurezze e chissà cos’altro ancora che gli lacerava l’animo.

La piazza di Bucarest, dove ebbe inizio tutto, era un cumulo di macerie. Quando dopo giorni mia zia riuscì a ritornare in quella che era stata una volta la sua casa, recuperò poche cose: alcuni libri che si salvarono dall’incendio forati dai proiettili, qualche straccio, un pezzo di tappeto. Me lo ricordo bene, era un tappeto persiano, grande, rosso porpora, con fiori, bellissimo. Mio zio lo aveva comprato in Iran, in una delle volte che accompagnò Ceausescu in visita diplomatica. Mia zia ritagliò le parti che non erano state bruciate e ne fece uno zerbino che mise davanti alla porta della nuova casa.

Quando mio zio uscì di prigione, dopo 6 mesi di silenzio, aveva in mente una sola cosa: ritrovare la propria famiglia. In una Bucarest irriconoscibile, aveva pochi indizi e nessuna certezza. Sapeva solo che tutti quelli che avevano perso la casa durante la rivoluzione abitavano adesso in un quartiere nuovo, con più di cinquanta palazzi, tutti uguali, grigi e con odore di vernice fresca, l’ultimo quartiere costruito dal regime prima del collasso. Nessuno era a conoscenza del fatto che fosse ancora vivo né lui sapeva cosa restava dei propri affetti.

Per giorni cominciò a girare per i nuovi parchi, entrando in ogni palazzo, ogni scala, ogni interno, alla ricerca di qualche indizio, qualche notizia, la conferma a qualche speranza. E poi eccolo lì, inaspettato, lo zerbino dal colore familiare, davanti ad una porta uguale alle altre, tra volti anonimi di un quartiere sconosciuto. Esausto e disperato bussò. Ci vollero alcuni minuti prima che qualcuno sbirciasse dallo spioncino, infiniti! Mia zia non aspettava nessuno, non coscientemente intendo, una sagoma smagrita di un uomo con la barba lunga lo attendeva all’uscio.

Quello che seguì fu un abbraccio lungo quanto lunghi furono i 182 giorni senza di lui.




1 novembre – “Luminație”, la Festa della Luce

Mia nonna diceva sempre che non puoi sentire di appartenere veramente a un posto se non hai i tuoi morti vicino e se non puoi andare ad accendere una candela sulla loro tomba il 1 novembre.  E’ il giorno in cui in Romania si celebra la Festa dei morti, chiamata anche Luminație, ossia la Festa della Luce. Nel cimitero del paese dove viveva non riposava nessuno dei suoi. I miei nonni erano rifugiati di guerra, sono stati costretti a fuggire dall’Ucraina (all’epoca apparteneva alla Romania), nel febbraio del 1944, dopo l’occupazione sovietica, in carrozza, con una bambina appena nata (mia mamma), hanno attraversato buona parte della Romania, vivendo un po’ dovunque, per poi stabilirsi infine a Mintiu, paese natale di mio nonno, nel cuore della Transilvania.  Un villaggio di 400 anime, troppo piccolo e troppo lontano da tutto quello che mia nonna aveva lasciato in Ucraina, prima di scappare via.  Fratelli, sorelle, genitori, amici… tutto svanito in quella notte del ’44.  Per 30 anni non ci è mai potuta tornare per motivi politici, 30 anni di ricordi che la legavano irrimediabilmente alla sua terra, a migliaia di chilometri di distanza. Il regime comunista aveva deciso di tagliare ogni filo che univa le famiglie separate dalla guerra e dagli accordi cinici con i quali le grandi poteri si divisero l’Europa alla fine della seconda guerra mondiale. Non potendo prendersela con la storia, che spesso non lascia scampo, se l’è presa per tutta la vita con mio nonno, “colpevole” di averla amato e di averla portata via e, chissà, forse di averla salvata.

In 30 anni aveva perso tutto della sua vita precedente, tanti amici e parenti da non avere più la forza di contarli. Lontani in vita e lontani anche dopo la morte. E così mia nonna, per una sorta di protesta silenziosa contro le proprie avversità, non andava mai al cimitero del suo paese, nemmeno per accompagnare mio nonno, che,  invece, aveva i suoi genitori e altri parenti seppelliti lì. Piuttosto si chiedeva spesso dove fossero stati sepolti i suoi cari, in quale terra, sotto quale bandiera.

Profira, mia nonna, conduceva così la sua vita, cresceva i propri figli, i nipoti, me, coltivava il suo orto, amava suo marito, si arrabbiava a volte con la Vita e spesso anche con la Morte. Poi arrivava novembre, e solo in quei giorni capivo quanto sofferente potesse essere la vita di questa donna contesa tra l’amore di essere madre e il dolore di essere figlia senza famiglia.

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Nel paese c’era un vero rituale che tutti seguivamo: si andava al cimitero per preparare le tombe, a tagliare l’erba, pulivamo tutto intorno, piantavamo tanti crisantemi colorati. Passavamo giornate intere a curare quel posto, sulla piccola collina, alle spalle della chiesa, in mezzo ad un frutteto. In primavera era un tripudio di fiori bianchi e rosa che finivano poi a terra in un enorme tappeto colorato che avvolgeva come in un abbraccio le croci. Andavamo al cimitero anche noi, i bambini, era l’occasione per stare insieme e partecipare, a modo nostro, ai preparativi della festa. Conoscevamo a memoria tutte le lapidi, i nomi incisi sulle croci, sceglievamo quali erano le più belle e ci piaceva guardare le foto sulle croci, di quelli che non c’erano più e di quelli che erano ancora vivi, ma avevano provveduto, da tradizione, ad organizzarsi per la dipartita.

Era tutto così naturale,  la morte non ci spaventava,  anche perché crescevamo in un tempo scandito dall’alternarsi dalle stagioni, e, soprattutto, dai grandi eventi della vita del piccolo paese: nascite, battesimi, matrimoni e funerali. Era un mondo essenziale e semplice, in cui nessuno pensava che si dovesse nascondere o addolcire una verità cruda come la morte. Eravamo in prima fila ai matrimoni, a saltare, ballare o suonare insieme ai musicisti del paese, a gironzolare intorno alla sposa, mentre la preparavano per il grande giorno, e sempre in prima fila anche ai funerali, a guardare e ed ascoltare affascinati le donne vestite di nero, bocitoare, le cosiddette prefiche (le nostre pero non venivano pagate) quelle che raccontavano, tra un pianto e l’altro, la vita del defunto, come se fosse stato il romanzo più accattivante del mondo. Accompagnavamo il corteo funebre fino al cimitero e nessuno ci allontanava quando la barra veniva calata nella buca e si concludeva la sepoltura. Non mancavamo neanche alla “festa” che seguiva, a cui partecipava tutto il paese, prete incluso, dove si mangiava tanto e si beveva di meno, visto che ad ogni bicchiere alzato si versavano, da tradizione, alcune gocce a terra, per l’anima del defunto.

Quello che mi affascinava di più di tutti i passaggi obbligati del rituale legato alla morte,  era la veglia di tre giorni e tre notti, durante la quale gli amici del defunto si davano incessantemente il cambio, giocavano a carte, mangiando, bevendo,  raccontando aneddoti su di lui, facendogli compagnia senza lasciarlo mai solo. Nella credenza popolare, se il defunto veniva abbandonato, arrivava nell’oltretomba smarrito e triste. Mi ricordo che guardavo questi uomini seduti intorno alla barra aperta, che giocavano a carte e alzavano spesso un bicchiere di țuică (grappa) e brindavano per l’amico scomparso, piangevano e poi scoppiavano a ridere, mentre ricordavano qualcosa di divertente, e gli sentivo rivolgersi spesso al defunto con le parole “Ti ricordi quando…?”… Mi sembrava tutto così strano ma teneramente allegro.

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Mi rendo conto di quanto sia difficile capire un simile rituale per chi è estraneo alla nostra cultura, nella quale il rito funebre è un mix di paganesimo dacico* e di sacro ortodossismo. Non è stato semplice neanche per mio marito quando ha partecipato, qualche anno fa, alla festa dei Morti nel piccolo cimitero di Mintiu, dove è stata infine seppellita mia nonna, mio nonno e altri parenti. Quando abbiamo deciso di andare e di portare anche Matteo, nostro figlio, ha temuto che sarebbe stata un’esperienza troppo impegnativa, dal punto di vista emotivo, per un bambino di 5 anni. Io lo tranquillizzavo e gli ripetevo che la Festa dei Morti non è per niente una commemorazione, ma una celebrazione, ma non era facile spiegare tutto ciò. Si era convinto da solo a breve, quando, una volta arrivato nel cimitero, ha visto il via vai di gente, che si fermava tra le tombe in attesa di visite e visitando a loro volta le tombe degli amici o parenti. La gente si salutava, si abbracciava, molti di quelli che vivevano lontano approfittavano per tornare in paese una volta all’anno, il 1 novembre. E come in una sorta di mercatino rionale, ognuno invitava gli altri a fermarsi davanti alle tombe della propria famiglia, per bere un bicchiere o mangiare un dolcetto, per l’anima dei defunti.  Le tombe stesse si animavano, diventando all’occorrenza tavole da pranzo, banconi di un bar, tutto il cimitero si trasformava in un luogo di un’allegra festa conviviale in cui l’elemento predominante era incredibilmente la Vita.  Il prete passava tra le tombe e celebrava brevi messe per ricordare quelli che non c’erano più tra di noi.  I bambini correvano allegri giocando a nascondino, dietro le croci di pietra, rafforzando ancora di più l’idea che quella giornata era la festa della luce e della vita. Per tutto il giorno, le candele rimanevano accese e al calar della notte il cimitero si trasformava in uno spettacolo incredibile di sconfinate luminarie che animavano la notte fino all’alba successiva. Nessuna croce rimaneva al buio quella notte, perché la luce delle candele accompagnava le anime scese tra noi a ritrovare la strada del ritorno.

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*Il modo in cui si celebra in Romania la Festa dei Morti, il I novembre, ricorda inevitabilmente i riti degli antichi daci, gli antenati del popolo rumeno, che credevano nell’immortalità dell’anima e festeggiavano la morte come un passaggio ad una vita migliore, dove li aspettava il loro dio, Zamolxes. I daci ballavano e cantavano quando moriva qualcuno e piangevano quando nasceva un bambino. Con una simile visione sulla morte, si può spiegare anche perché l’unico Cimitero allegro del mondo si trovi in Romania, a Săpânța, un luogo dove si ride in faccia morte e si trasforma in arte un modo a dir poco originale di esorcizzare la morte.