La ballata di Mastro Manole, un cuore in uno scrigno e altre storie…
E’ da tempo che penso alla leggenda di Mastro Manole (Meșterul Manole) e a come raccontarla. Gli ingredienti della vicenda sono molti e particolarmente intricati. E’ una storia tragica che rappresenta uno dei miti fondamentali della cultura rumena, il mito estetico della creazione.
Si narra di un sacrificio umano, il più doloroso che si possa immaginare, ma anche di un monastero, quello di Curtea de Argeș, considerato un capolavoro architettonico senza eguali. Il monastero si trova nella Valacchia del principe Vlad, Dracula, non lontano dalla sua dimora di Poenari, lungo il fiume Argeș, lo stesso dove, secondo Bram Stoker, si è gettata Elisabetta, la moglie del principe, dopo aver appreso la (falsa) notizia della morte del marito in battaglia. Come se non bastasse nel Monastero di Argeș, è sepolta la regina Maria di Romania, insieme ad altri re e regine, niente di strano se non fosse che il suo corpo è senza il cuore! La regina pretese in vita che alla sua morte il cuore le venisse estirpato, sistemato in uno scrigno d’oro e sepolto in un altro palazzo, nella città di Balcic, a cui si sentiva particolarmente legata. Questa non è una leggenda, ma pura verità storica.
I migliaia di turisti stranieri che arrivano ogni anno a Curtea de Argeș vengono attratti non solo dalla bellezza del Monastero, ma sicuramente anche dal mistero che lo avvolge, tra credenze popolari, leggende e storia.
Nel 1515, uno dei primi voivoda (principe) della Valacchia, Neagoe Basarab, decise di innalzare un monastero, al posto della vecchia chiesa metropolitana. Non voleva costruire un edificio qualunque, doveva essere il più bello tra tutti quelli realizzati fino a quel momento. Per questo fu lui stesso a progettare il monastero, visto che aveva vaste conoscenze di architettura, e seguì da vicino i lavori, per quasi tre anni. Fece arrivare piastrelle di marmo e tessere di mosaico appositamente da Costantinopoli e procurò grandi quantità di oro e argento per le decorazioni, rinunciando a quasi tutte le sue ricchezze, per poter realizzare un luogo sacro unico. Assunse il più famoso pittore dell’epoca, Dobromir Zugravul, che realizzò dei dipinti meravigliosi, paragonati dai critici d’arte a quelli che si trovano nella famosa Basilica di Santa Sofia, a Istanbul. Ad una prima occhiata, questo monastero in pietra bianca con i tetti d’argento e le torri sinuose in oro colpisce proprio per la sua architettura unica, un misto affascinante di arte bizantina, con influenze armene, persiane e arabe. Il monastero è sopravvissuto a secoli di guerre, ai climi rigidi e a un incendio che, nel 1875, rese necessario un restauro (dall’architetto francese André Lecomte du Nouy).
I documenti dell’epoca parlano di un luogo di culto imponente, unico per la sua bellezza (e anche per suoi costi!), che il popolo accolse con molta fede e altrettanta curiosità perché era diverso da tutto quello che fu edificato fino a quel momento. Molti cercarono di giustificare questa incredibile grandiosità facendo appello a superstizioni e credenze popolari, come quella, molto diffusa, secondo la quale l’arte richiede un sacrificio… un sacrificio umano!
Nacque così, da autore anonimo, la Ballata del Monastero Argeș.
La ballata inizia con Negru Vodă (Principe Nero), sovrano del territorio di Argeș, che cerca sulla riva del fiume Argeș, insieme a “dieci grandi mastri e muratori”, guidati da Manole, un luogo perfetto per costruire un monastero come non si è mai visto. Camminando incontrano un pastore che racconta loro delle rovine di un muro, dove delle forze irrazionali impediscono qualsiasi costruzione, insomma, un luogo maledetto. Il voivoda decide di costruire proprio lì un monastero unico al mondo per la sua bellezza e splendore, non solo per orgoglio o per la continuità di una tradizione, ma anche per santificare il posto, sconfiggendo il male che sembra di alloggiare lì.
Ben presto, mastro Manole e i suoi uomini dovranno fare i conti con la maledizione di questo luogo: tutto quello che costruiscono durante il giorno, la notte sprofonda!
Il sovrano viene ogni giorno a controllare i lavori e non si capacita del fatto che dopo settimane di lavoro ancora non sia stato alzato neanche una parete e minaccia gli operai di seppellirli vivi nelle fondamenta.
Per sostenere i muratori interviene la Divinità, con un “sussurro dall’alto”. Manole, il prescelto, sogna che i muri resisteranno alla maledizione solo con un sacrificio umano: la prima donna, moglie o sorella che arriverà il giorno seguente con il pranzo sarebbe dovuta essere murata viva nelle fondamenta.
Informati del sogno, i mastri giurano di mantenere il segreto, ma sono tormentati. Il più preoccupato è Manole che, il giorno seguente, di mattina presto, “scruta l’orizzonte” per scoprire chi sarà la donna destinata al sacrificio supremo. La sofferenza di Manole aumenta “fino a lacerare il suo cuore”, quando si accorge che colei che si stava avvicinando era proprio sua moglie, Ana!
Sperando di cambiare il destino, si rivolge alla Divinità, affinché la fermi. Il cielo si lascia convincere e risponde alle preghiere dell’uomo, scatenando fenomeni naturali devastanti, tempeste e venti terribili, nel tentativo di fermarla, ma questa mostra una forza di volontà unica e niente riesce ad impedirle di compiere il suo destino.
Manole, tormentato da una lato dalla passione per la creazione e dall’altro dall’amore per Ana, accetta impotente il sacrificio della sua sposa.
Comincia con lei una sorta di gioco macabro e, fingendo una sorta di scherzo, inizia a murare viva lei e il bimbo che Ana portava in grembo. Questa è la parte più drammatica e angosciante della ballata, perché invoca il dolore fisico, il pianto della creatura che Ana portava dentro di sé ed il presentimento della sua fine, quando si rende conto di essere condannata.
Manole piange e continua a costruire, seppellendo la moglie tra le mura, “fino alle caviglie, fino ai polpacci, fino al grembo, fino alle spalle, fino al volto…” . Quando non si vede più il volto di Ana, si sentono ancora forti i suoi lamenti.
Alla fine, Manole si inginocchia e abbraccia il muro, che finalmente non crolla più.
Una volta compiuti i lavori, Negru Voda arriva e rimane incantato dalla bellezza del monastero. Chiede provocatoriamente a mastro Manole se fosse capace di costruire un monastero ancora più bello e lui risponde, incautamente, di sì.
Il voivoda si infuria e ordina di togliere le impalcature e di lasciar morire i costruttori sul tetto.
Tentando di superare la propria condizione, come il leggendario Icaro, gli operai costruiscono delle ali con assicelle di legno, ma non riescono a volare e precipitando, trovano la loro fine.
La ballata si conclude con l’immagine del volo di Manole, che, mentre cade, continua a sentire i gemiti della sua amata. 
Sul luogo dove Manole precipita nasce una sorgente che a oggi non si è non è mai prosciugata. La leggenda dice che, addolorata, la terra fece spuntare un filo di acqua, una sua lacrima. Davanti alla Fontana di Manole si fermano affascinati i viaggiatori di tutto il mondo, alcuni gettano qualche moneta ed esprimono un desiderio. Poi, si fermano incuriositi davanti alla parete sulla quale possono leggere un scritta, con lettere in rosso-sangue, che indica il luogo dove sarebbe stata murata Ana. Qualche monaco si avvicina e racconta a bassa voce, sussurrando, che ancora oggi, qualche volta si sentono i suoi gemiti…


“Così nacque il popolo rumeno”, concludevo, in modo metaforico, la lezione sulla genesi del popolo rumeno. Adesso immaginatevi dei ragazzi di 13-14 anni che, oltre ad essere colpiti dal romanticismo di questo amore impossibile, erano seriamente confusi sul significato di questa leggenda: “Professoressa, non capiamo com’è nato, tecnicamente, il popolo rumeno se, quando Traiano la toccò, Dochia si era trasformata in una statua di pietra!”, queste ed altre simili erano le domande volutamente imbarazzanti. Tra insinuazioni e risate, la loro fantasia era inarrestabile, proprio come quella degli autori anonimi e collettivi di questo mito, tramandato oralmente nel tempo. Spetta alla razionalità e ai trattati di storia fare chiarezza tra tutte le contraddizioni presenti nel racconto mitico. E quello che la storia narra sull’invasione della Dacia ha molto di eroico, ma veramente poco di romantico.
, la conquista delle Dacia da parte dei romani, sotto la guida dell’imperatore Traiano, fu un’operazione militare durata cinque anni, che impegnò metà del potenziale bellico dell’impero romano.
gli fosse conferito un posto d’onore nella storia del grande impero. Ma Traiano fu attratto anche dal grande tesoro di Decebal, soprattutto perché l’Impero era in quegli anni sempre più povero. La Dacia aveva numerose miniere d’oro e argento e rappresentava per i romani un vero El Dorado.
Massacri, devastazioni, teste romane su delle picche, romani che incendiano villaggi, daci fatti prigionieri e deportati, accampamenti in luoghi desolati, sconosciuti alle mappe dei soldati, foreste e monti impenetrabili, Traiano che guarda la testa del re Decebal, portata come trofeo da uno dei suoi soldati. Scene di lotta tra i daci e i romani, immagini terribili raffigurate magistralmente sulla Colonna Traiana, alcune portate a nuova fama cinematografica nel famoso film di Ridley Scott, il Gladiatore.
an Pietro apre le porte del Paradiso. Sono pochi quelli destinati alla dannazione, l’artista conferendo molto spazio alla resurrezione e all’entrata nel Paradiso. La maestosa composizione, di grande ricchezza creativa, è rappresentata su un fondo azzurro, intenso, nelle sue infinite tonalità.
dicata, negli ultimi anni, al restauro dei dipinti, “è proprio il colore che ha portato le anime tra queste mura, un vero miracolo della fede. Ogni santo raffigurato, ogni storia biblica, ogni dettaglio si sono fissati negli occhi dei visitatori grazie all’azzurro…E’ una carezza che giunge dal cielo…”
“atleta di Cristo e un vero difensore della fede cristiana”. Si susseguirono tante altre battaglie e solo nel 1488, il voivoda mantenne la promessa fatta al sua consigliere-eremita e ordinò la costruzione di un monastero a Voroneț, che doveva diventare un luogo sacro simbolico in quella parte dell’Europa cristiana minacciata in permanenza dai turchi. Il monastero fu edificato in meno di 4 mesi, ma gli affreschi furono aggiunti 60 anni dopo. Voroneț fu solo uno di una lunga lista che contiene tanti luoghi di culto costruiti da Stefano il Grande, nei suoi 44 anni di principato: la tradizione vuole che ci fosse stata una chiesa per ogni anno e per ogni battaglia vinta contro i turchi. Le malelingue, esperte in “gossip storico”, parlano anche di tanti figli del voivoda, legittimi e illegittimi, certo, non tanti quanti i luoghi sacri che ha fatto edificare. Ma queste “chiacchiere da salotto” non hanno impedito la Chiesa Ortodossa a santificarlo, nel 1992, per il suo ruolo fondamentale nella difesa della cristianità. Nel 1475, Stefano il Grande scrisse una lettera a tutti i sovrani cristiani d’Europa in cui ribadiva che “i