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La ballata di Mastro Manole, un cuore in uno scrigno e altre storie…

E’ da tempo che penso alla leggenda di Mastro Manole (Meșterul Manole) e a come raccontarla. Gli ingredienti della vicenda sono molti e particolarmente intricati. E’ una storia tragica che rappresenta uno dei miti fondamentali della cultura rumena,  il mito estetico della creazione.

Si narra di un sacrificio umano, il più doloroso che si possa immaginare, ma anche di un monastero, quello di Curtea de Argeș, considerato un capolavoro architettonico senza eguali. Il monastero si trova nella Valacchia del principe Vlad, Dracula, non lontano dalla sua dimora di Poenari,  lungo il fiume Argeș, lo stesso dove, secondo Bram Stoker, si è gettata Elisabetta, la moglie del principe,  dopo aver appreso la (falsa) notizia della morte del marito in battaglia. Come se non bastasse nel Monastero di Argeș, è sepolta la regina Maria di Romania, insieme ad altri re e regine, niente di strano se non fosse che il suo corpo è senza il cuore!  La regina pretese in vita che alla sua morte il cuore le venisse estirpato, sistemato in uno scrigno d’oro e sepolto in un altro palazzo, nella città di Balcic, a cui si sentiva particolarmente legata. Questa non è una leggenda, ma pura verità storica.

I migliaia di turisti stranieri che arrivano ogni anno a Curtea de Argeș vengono attratti non solo dalla bellezza del Monastero, ma sicuramente anche dal mistero che lo avvolge, tra credenze popolari, leggende e storia. 

curtea de argesNel 1515, uno dei primi voivoda (principe) della Valacchia, Neagoe Basarab, decise di innalzare un monastero, al posto della vecchia chiesa metropolitana. Non voleva costruire un edificio qualunque, doveva essere il più bello tra tutti quelli realizzati fino a quel momento. Per questo fu lui stesso a progettare il monastero, visto che aveva vaste conoscenze di architettura,  e seguì da vicino i lavori, per quasi tre anni. Fece arrivare piastrelle di marmo e tessere di mosaico appositamente da Costantinopoli e procurò grandi quantità di oro e argento per le decorazioni, rinunciando a quasi tutte le sue ricchezze, per poter realizzare un luogo sacro unico. Assunse il più famoso pittore dell’epoca, Dobromir Zugravul, che realizzò dei dipinti meravigliosi, paragonati dai critici d’arte a quelli che si trovano nella famosa Basilica di Santa Sofia, a Istanbul. Ad una prima occhiata, questo monastero in pietra bianca con i tetti d’argento e le torri sinuose in oro colpisce proprio per la sua architettura unica, un misto affascinante di arte bizantina, con influenze armene, persiane e arabe. Il monastero è sopravvissuto a secoli di guerre, ai climi rigidi e a un incendio che, nel 1875,  rese necessario un restauro (dall’architetto francese André Lecomte du Nouy).

I documenti dell’epoca parlano di un luogo di culto imponente, unico per la sua bellezza (e anche per suoi costi!),  che il popolo accolse con molta fede e altrettanta curiosità perché era diverso da tutto quello che fu edificato fino a quel momento. Molti cercarono di giustificare questa incredibile grandiosità facendo appello a superstizioni e credenze popolari, come quella, molto diffusa,  secondo la quale l’arte richiede un sacrificio… un sacrificio umano!

Nacque così, da autore anonimo,  la Ballata del Monastero Argeș.
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La ballata inizia con Negru Vodă (Principe Nero), sovrano del territorio di Argeș,  che cerca sulla riva del fiume Argeș, insieme a “dieci grandi mastri e muratori”, guidati da Manole, un luogo perfetto per costruire un monastero come non si è mai visto. Camminando incontrano un pastore che racconta loro delle rovine di un muro, dove delle forze irrazionali impediscono qualsiasi costruzione, insomma, un luogo maledetto. Il voivoda decide di costruire proprio lì un monastero unico al mondo per la sua bellezza e splendore, non solo per orgoglio o per la continuità di una tradizione, ma anche per santificare il posto, sconfiggendo il male che sembra di alloggiare lì.

Ben presto, mastro Manole e i suoi uomini dovranno fare i conti con la maledizione di questo luogo: tutto quello che costruiscono durante il giorno, la notte sprofonda!

Il sovrano viene ogni giorno a controllare i lavori e non si capacita del fatto che dopo settimane di lavoro ancora non sia stato alzato neanche una parete e minaccia gli operai di seppellirli vivi nelle fondamenta.

Per sostenere i muratori interviene la Divinità, con un “sussurro dall’alto”. Manole, il prescelto, sogna che i muri resisteranno alla maledizione solo con un sacrificio umano: la prima donna, moglie o sorella che arriverà il giorno seguente con il pranzo sarebbe dovuta essere murata viva nelle fondamenta.
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Informati del sogno, i mastri giurano di mantenere il segreto, ma sono tormentati. Il più preoccupato è Manole che, il giorno seguente, di mattina presto, “scruta l’orizzonte” per scoprire chi sarà la donna destinata al sacrificio supremo.  La sofferenza di Manole aumenta “fino a lacerare il suo cuore”, quando si accorge che colei che si stava avvicinando era proprio sua moglie,  Ana!

Sperando di cambiare il destino, si rivolge alla Divinità, affinché la fermi. Il cielo si lascia convincere e risponde alle preghiere dell’uomo, scatenando fenomeni naturali devastanti, tempeste e venti terribili, nel tentativo di fermarla, ma questa mostra una forza di volontà unica e niente riesce ad impedirle di compiere il suo destino.

Manole, tormentato da una lato dalla passione per la creazione e dall’altro dall’amore per Ana, accetta impotente il sacrificio della sua sposa.

Comincia con lei una sorta di gioco macabro e, fingendo una sorta di scherzo,  inizia a murare viva lei e il bimbo che Ana portava in grembo.  Questa è la parte più drammatica e angosciante della ballata, perché invoca il dolore fisico, il pianto della creatura che Ana portava dentro di sé ed il presentimento della sua fine, quando si rende conto di essere condannata.

Manole piange e continua a costruire, seppellendo la moglie tra le mura, “fino alle caviglie, fino ai polpacci, fino al grembo, fino alle spalle, fino al volto…” . Quando non si vede più il volto di Ana, si sentono ancora forti i suoi lamenti.

Alla fine, Manole si inginocchia e abbraccia il muro, che finalmente non crolla più.

anaUna volta compiuti i lavori,  Negru Voda arriva e rimane incantato dalla bellezza del monastero. Chiede provocatoriamente a mastro Manole se fosse capace di costruire un monastero ancora più bello e lui risponde, incautamente,  di sì.

Il voivoda si infuria e ordina di togliere le impalcature e di lasciar morire i costruttori sul tetto.  

Tentando di superare la propria condizione, come il leggendario Icaro, gli operai costruiscono delle ali con assicelle di legno, ma non riescono a volare e precipitando, trovano la loro fine.

La ballata si conclude con l’immagine del volo di Manole, che, mentre cade, continua a sentire i gemiti della sua amata.  fantana

Sul luogo dove Manole precipita nasce una sorgente che a oggi non si è non è mai prosciugata. La leggenda dice che, addolorata, la terra fece spuntare un filo di acqua, una sua lacrima. Davanti alla Fontana di Manole si fermano affascinati i viaggiatori di tutto il mondo, alcuni gettano qualche moneta ed esprimono un desiderio. Poi, si fermano incuriositi davanti alla parete sulla quale possono leggere un scritta, con lettere in rosso-sangue, che indica il luogo dove sarebbe stata murata Ana.  Qualche monaco si avvicina e racconta a bassa voce, sussurrando, che ancora oggi, qualche volta si sentono i suoi gemiti…




1 novembre – “Luminație”, la Festa della Luce

Mia nonna diceva sempre che non puoi sentire di appartenere veramente a un posto se non hai i tuoi morti vicino e se non puoi andare ad accendere una candela sulla loro tomba il 1 novembre.  E’ il giorno in cui in Romania si celebra la Festa dei morti, chiamata anche Luminație, ossia la Festa della Luce. Nel cimitero del paese dove viveva non riposava nessuno dei suoi. I miei nonni erano rifugiati di guerra, sono stati costretti a fuggire dall’Ucraina (all’epoca apparteneva alla Romania), nel febbraio del 1944, dopo l’occupazione sovietica, in carrozza, con una bambina appena nata (mia mamma), hanno attraversato buona parte della Romania, vivendo un po’ dovunque, per poi stabilirsi infine a Mintiu, paese natale di mio nonno, nel cuore della Transilvania.  Un villaggio di 400 anime, troppo piccolo e troppo lontano da tutto quello che mia nonna aveva lasciato in Ucraina, prima di scappare via.  Fratelli, sorelle, genitori, amici… tutto svanito in quella notte del ’44.  Per 30 anni non ci è mai potuta tornare per motivi politici, 30 anni di ricordi che la legavano irrimediabilmente alla sua terra, a migliaia di chilometri di distanza. Il regime comunista aveva deciso di tagliare ogni filo che univa le famiglie separate dalla guerra e dagli accordi cinici con i quali le grandi poteri si divisero l’Europa alla fine della seconda guerra mondiale. Non potendo prendersela con la storia, che spesso non lascia scampo, se l’è presa per tutta la vita con mio nonno, “colpevole” di averla amato e di averla portata via e, chissà, forse di averla salvata.

In 30 anni aveva perso tutto della sua vita precedente, tanti amici e parenti da non avere più la forza di contarli. Lontani in vita e lontani anche dopo la morte. E così mia nonna, per una sorta di protesta silenziosa contro le proprie avversità, non andava mai al cimitero del suo paese, nemmeno per accompagnare mio nonno, che,  invece, aveva i suoi genitori e altri parenti seppelliti lì. Piuttosto si chiedeva spesso dove fossero stati sepolti i suoi cari, in quale terra, sotto quale bandiera.

Profira, mia nonna, conduceva così la sua vita, cresceva i propri figli, i nipoti, me, coltivava il suo orto, amava suo marito, si arrabbiava a volte con la Vita e spesso anche con la Morte. Poi arrivava novembre, e solo in quei giorni capivo quanto sofferente potesse essere la vita di questa donna contesa tra l’amore di essere madre e il dolore di essere figlia senza famiglia.

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Nel paese c’era un vero rituale che tutti seguivamo: si andava al cimitero per preparare le tombe, a tagliare l’erba, pulivamo tutto intorno, piantavamo tanti crisantemi colorati. Passavamo giornate intere a curare quel posto, sulla piccola collina, alle spalle della chiesa, in mezzo ad un frutteto. In primavera era un tripudio di fiori bianchi e rosa che finivano poi a terra in un enorme tappeto colorato che avvolgeva come in un abbraccio le croci. Andavamo al cimitero anche noi, i bambini, era l’occasione per stare insieme e partecipare, a modo nostro, ai preparativi della festa. Conoscevamo a memoria tutte le lapidi, i nomi incisi sulle croci, sceglievamo quali erano le più belle e ci piaceva guardare le foto sulle croci, di quelli che non c’erano più e di quelli che erano ancora vivi, ma avevano provveduto, da tradizione, ad organizzarsi per la dipartita.

Era tutto così naturale,  la morte non ci spaventava,  anche perché crescevamo in un tempo scandito dall’alternarsi dalle stagioni, e, soprattutto, dai grandi eventi della vita del piccolo paese: nascite, battesimi, matrimoni e funerali. Era un mondo essenziale e semplice, in cui nessuno pensava che si dovesse nascondere o addolcire una verità cruda come la morte. Eravamo in prima fila ai matrimoni, a saltare, ballare o suonare insieme ai musicisti del paese, a gironzolare intorno alla sposa, mentre la preparavano per il grande giorno, e sempre in prima fila anche ai funerali, a guardare e ed ascoltare affascinati le donne vestite di nero, bocitoare, le cosiddette prefiche (le nostre pero non venivano pagate) quelle che raccontavano, tra un pianto e l’altro, la vita del defunto, come se fosse stato il romanzo più accattivante del mondo. Accompagnavamo il corteo funebre fino al cimitero e nessuno ci allontanava quando la barra veniva calata nella buca e si concludeva la sepoltura. Non mancavamo neanche alla “festa” che seguiva, a cui partecipava tutto il paese, prete incluso, dove si mangiava tanto e si beveva di meno, visto che ad ogni bicchiere alzato si versavano, da tradizione, alcune gocce a terra, per l’anima del defunto.

Quello che mi affascinava di più di tutti i passaggi obbligati del rituale legato alla morte,  era la veglia di tre giorni e tre notti, durante la quale gli amici del defunto si davano incessantemente il cambio, giocavano a carte, mangiando, bevendo,  raccontando aneddoti su di lui, facendogli compagnia senza lasciarlo mai solo. Nella credenza popolare, se il defunto veniva abbandonato, arrivava nell’oltretomba smarrito e triste. Mi ricordo che guardavo questi uomini seduti intorno alla barra aperta, che giocavano a carte e alzavano spesso un bicchiere di țuică (grappa) e brindavano per l’amico scomparso, piangevano e poi scoppiavano a ridere, mentre ricordavano qualcosa di divertente, e gli sentivo rivolgersi spesso al defunto con le parole “Ti ricordi quando…?”… Mi sembrava tutto così strano ma teneramente allegro.

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Mi rendo conto di quanto sia difficile capire un simile rituale per chi è estraneo alla nostra cultura, nella quale il rito funebre è un mix di paganesimo dacico* e di sacro ortodossismo. Non è stato semplice neanche per mio marito quando ha partecipato, qualche anno fa, alla festa dei Morti nel piccolo cimitero di Mintiu, dove è stata infine seppellita mia nonna, mio nonno e altri parenti. Quando abbiamo deciso di andare e di portare anche Matteo, nostro figlio, ha temuto che sarebbe stata un’esperienza troppo impegnativa, dal punto di vista emotivo, per un bambino di 5 anni. Io lo tranquillizzavo e gli ripetevo che la Festa dei Morti non è per niente una commemorazione, ma una celebrazione, ma non era facile spiegare tutto ciò. Si era convinto da solo a breve, quando, una volta arrivato nel cimitero, ha visto il via vai di gente, che si fermava tra le tombe in attesa di visite e visitando a loro volta le tombe degli amici o parenti. La gente si salutava, si abbracciava, molti di quelli che vivevano lontano approfittavano per tornare in paese una volta all’anno, il 1 novembre. E come in una sorta di mercatino rionale, ognuno invitava gli altri a fermarsi davanti alle tombe della propria famiglia, per bere un bicchiere o mangiare un dolcetto, per l’anima dei defunti.  Le tombe stesse si animavano, diventando all’occorrenza tavole da pranzo, banconi di un bar, tutto il cimitero si trasformava in un luogo di un’allegra festa conviviale in cui l’elemento predominante era incredibilmente la Vita.  Il prete passava tra le tombe e celebrava brevi messe per ricordare quelli che non c’erano più tra di noi.  I bambini correvano allegri giocando a nascondino, dietro le croci di pietra, rafforzando ancora di più l’idea che quella giornata era la festa della luce e della vita. Per tutto il giorno, le candele rimanevano accese e al calar della notte il cimitero si trasformava in uno spettacolo incredibile di sconfinate luminarie che animavano la notte fino all’alba successiva. Nessuna croce rimaneva al buio quella notte, perché la luce delle candele accompagnava le anime scese tra noi a ritrovare la strada del ritorno.

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*Il modo in cui si celebra in Romania la Festa dei Morti, il I novembre, ricorda inevitabilmente i riti degli antichi daci, gli antenati del popolo rumeno, che credevano nell’immortalità dell’anima e festeggiavano la morte come un passaggio ad una vita migliore, dove li aspettava il loro dio, Zamolxes. I daci ballavano e cantavano quando moriva qualcuno e piangevano quando nasceva un bambino. Con una simile visione sulla morte, si può spiegare anche perché l’unico Cimitero allegro del mondo si trovi in Romania, a Săpânța, un luogo dove si ride in faccia morte e si trasforma in arte un modo a dir poco originale di esorcizzare la morte. 




Roma-neide, siamo tutti figli di Traiano

Quando insegnavo lettere in Romania, nel primo liceo si iniziava con i quattro miti fondamentali della cultura rumena. Il primo tra tutti, il mito dell’etno-genesi del popolo rumeno, ossia la nascita del nostro popolo. Raccontavo ai ragazzi la leggenda secondo la quale l’imperatore Traiano, una volta conquistata la Dacia (l’attuale Romania) , in seguito alle guerre del 101-102dc e 105-106dc, si innamora di Dochia, la figlia del re dei daci,  Decebal.  Quando la vide, alta, esile, capelli lunghi,  occhi chiari, astuta e coraggiosa, rimase folgorato.  C’è un poema epico, dal titolo Traiano e Dochia,  che racconta quello che si suppone che sia avvenuto: l’imperatore tentò di prendere in sposa la bellissima principessa, descritta come una vera amazzone, ma lei lo rifiutò, vedendolo solamente come l’invasore crudele che conquistò le sue terre e distrusse il suo popolo. Decise di scappare e di rifugiarsi nelle montagne Carpati, dove solo i daci riuscivano ad inoltrarsi senza smarrirsi, per sempre. Si tolse i suoi abiti regali e si vestì con un saio da pastore, per non essere riconosciuta. L’imperatore la inseguì e quando le arrivò davanti stese le braccia per fermarla. Dochia chiese allora aiuto al Dio dei daci, Zamolxis.  Il dio la trasformò in una statua di pietra.  Traiano pianse disperato, le mise la sua corona in testa e la dichiarò comunque la sua regina.

dochia“Così nacque il popolo rumeno”, concludevo, in modo metaforico,  la lezione sulla genesi del popolo rumeno. Adesso immaginatevi dei ragazzi di 13-14 anni che, oltre ad essere colpiti dal romanticismo di questo amore impossibile, erano seriamente confusi sul significato di questa leggenda: “Professoressa, non capiamo com’è nato, tecnicamente,  il popolo rumeno se,  quando Traiano la toccò, Dochia si era trasformata in una statua di pietra!”, queste ed altre simili erano le domande volutamente imbarazzanti. Tra insinuazioni e risate, la loro fantasia era inarrestabile, proprio come quella degli autori anonimi e collettivi di questo mito, tramandato oralmente nel tempo. Spetta alla razionalità e ai trattati di storia fare chiarezza tra tutte le contraddizioni presenti nel racconto mitico. E quello che la storia narra sull’invasione della Dacia ha molto di eroico, ma veramente poco di romantico.

In realtàdecebal, la conquista delle Dacia da parte dei romani, sotto la guida dell’imperatore Traiano, fu un’operazione militare durata cinque anni,  che impegnò metà del potenziale bellico dell’impero romano.
Una guerra sanguinosa in cui morirono decine di migliaia di legionari romani e altrettanti daci, molto complicata,  perché il nemico era “estremamente preparato, difficile da sconfiggere e mai domo“, come si legge nei documenti storici dell’epoca.  Erodoto,  padre della storia, definiva i daci come “i più coraggiosi e giusti dei Traci “ per la bravura e il coraggio con cui affrontavano la morte, che  era per loro un passaggio verso l’immortalità dell’anima.  Omero, il grande poeta, scrive : “I Daci possiedono coraggio ed umanità in battaglia, possiedono una educazione morale, che manifestano curando i forestieri e i feriti caduti nella loro terra”.  

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Dacia Felix
era un potente stato, in espansione, con un temibile esercito, un re, Decebal,  che era un grande stratega, un unico Dio, Zamolxis, grazie al quale, diceva Platone, i daci erano immortali. La capitale dell’impero, Sarmizegetusa, era circondata da foreste impenetrabili, una vera fortezza naturale, imprendibile.  La Dacia rappresentava un pericolo per l’Impero Romano, che temeva una grande coalizione dei barbari contro Roma. Altri imperatori prima di Traiano, tra questi, Giulio Cesare e Domiziano, provarono ad invaderla ma furono amaramente sconfitti. Traiano decise di riprovare,  confidando nelle sue doti di grande stratega militare e sperando che, in caso di grande trionfo, sarmizegetusa gli fosse conferito un posto d’onore nella storia del grande impero. Ma Traiano fu attratto anche dal grande tesoro di Decebal, soprattutto perché l’Impero era in quegli anni sempre più povero.  La Dacia aveva numerose miniere d’oro e argento e rappresentava per i romani un vero El Dorado.
All’avvicinarsi dell’esercito nemico, quando la sconfitta era ormai inevitabile, il re Decebal preferì tagliarsi la gola con un pugnale ricurvo piuttosto che cadere prigioniero.
La vittoria fruttò a Roma 350 tonnellate di oro e argento, un tesoro di inestimabile valore, l’ultimo grande bottino dell’Impero Romano.

La storia del tesoro dei daci merita di essere raccontata, perché ha dell’incredibile. Decebal aveva deviato il corso di un fiume, per scavare una buca nel letto, nascosto il tesoro, ricoperto con pietre, e infine aveva riportato il fiume nel suo corso. I romani non l’avrebbero mai trovato se non avessero avuto la soffiata di un soldato vicino al re Decebal, di nome Bicilis. La sua malefica figura ha dato nascita a una parola, bicisnic, che significa, in rumeno,  “uomo senza onore, traditore e leccapiedi”. 

E’ proprio grazie a questo tesoro se a Roma si possono ammirare ancora, dopo 19 secoli, monumenti come il Foro di Traiano, con la sua imponente Colonna Traiana in mezzo. Apollodoro di Damasco, l’architetto preferito di Traiano, aveva già progettato per il suo imperatore il ponte più grande costruito durante l’Impero, il Ponte di Drobeta, sul Danubio, in Dacia. Dopo il suo ritorno a Roma, Apollodoro progettò il Foro di Traiano e la Colonna,  che fu innalzata nel 113dc per celebrare la conquista della Dacia e esaltare la gloria dell’imperatore. Lo scopo di questa meravigliosa opera non era solo celebrativo, ma anche didascalico, in quanto la colonna descrive le imprese più salienti della guerra in Dacia.

La Colonna Traiana è considerata dagli storici il certificato di nascita del popolo Romeno.

Alla morte prematura di Traiano, le sue ceneri furono deposte in un urna d’oro alla base della colonna, considerata uno dei più bei monumenti dell’antica Roma. Un vero kolossal storico, una pellicola cinematografica a spirale, che descrive le campagne militari romane in Dacia.colonna Massacri, devastazioni, teste romane su delle picche, romani che incendiano villaggi, daci fatti prigionieri e deportati, accampamenti in luoghi desolati, sconosciuti alle mappe dei soldati, foreste e monti impenetrabili, Traiano che guarda la testa del re Decebal, portata come trofeo da uno dei suoi soldati. Scene di lotta tra i daci e i romani, immagini terribili raffigurate magistralmente sulla Colonna Traiana, alcune portate a nuova fama cinematografica nel famoso film di Ridley Scott, il Gladiatore.

Che successe in Dacia, la nuova e l’ultima provincia romana, dopo il ritorno di Traiano a Roma? Rimase sotto l’occupazione romana fino al 271, una dominazione storicamente racchiusa in meno di due secoli, ma che lasciò un’impronta duratura nella regione, tanto che la lingua rumena – che si sarebbe sviluppata nei secoli successivi – è considerata lingua romanza come l’italiano, lo spagnolo, il portoghese e il francese.
Nonostante l’isolamento della regione, lontana da Roma, in una zona successivamente occupata da slavi e magiari, il rumeno ha una forte radice latina.

Della dominazione dell’Impero romano resta il nome di una nazione, la Romania, un’isola di latinità sopravvissuta nell’Europa Orientale, e una lingua che ha nel suo lessico oltre il 70% di parole di origine latina. Tante parole, certo, ma non abbastanza per includere nella lista anche quelle dell’amore che sono invece di origine slava*. Mi piace pensare che le parole che mancano sono quelle che  l’imperatore innamorato non fece in tempo a pronunciare alla sua principessa amata.

*Appendice amorosa della lingua rumena:
ti amo-te iubesc;
cara-dragă;
amata-iubită;
amore-iubire, dragoste. 




Azzurro di Voroneț nella Cappella Sistina d’Oriente

Nelle terre lontane dell’Est, quasi ai confini dell’Europa, in Bucovina (nel nord della Moldavia), esiste un azzurro irripetibile, talmente unico da entrare nel lessico artistico universale, insieme al rosso di Tiziano e il verde di Veronese. L’azzurro di Voroneț non è il colore del cielo, ma il colore  dominante negli affreschi di un monastero ortodosso,  tra i più belli del mondo, soprannominato dai critici d’arte la Cappella Sistina dell’Est,  grazie al suo dipinto principale, che copre l’intera facciata occidentale, il Giudizio Universale. Una vera Bibbia immersa nell’azzurro, realizzata, nel 1547,  dallo ieromonaco Gaurila,  apprezzato come un grande artista, colto ed erudito, conoscitore dei dogmi e della dottrina ortodossa, e per questo in grado di rappresentarli con chiarezza e capacità di sintesi. Nel mezzo della scena del Giudizio sta Cristo, con ai lati la Madonna e Giovanni Battista, tramite tra il cielo e il mondo degli uomini, che inizia più sotto con Adamo (rappresentato da vecchio, per esprimere la lunga durata del genere umano ) ed Eva (raffigurata giovane e bella, simbolicamente è grazie a lei che l’umanità si rigenera sempre).  Ai lati ci sono i santi e i gli apostoli, seduti su delle panche ornate, in stile prezioso e calligrafico. Attorno ad Adamo ed Eva viene raffigurata la grande scena corale della pesatura delle anime, dove per la maggior parte dei beati, Sparticolarean Pietro apre le porte del Paradiso. Sono pochi quelli destinati alla dannazione, l’artista conferendo molto spazio alla resurrezione e all’entrata nel Paradiso. La maestosa composizione, di grande ricchezza creativa, è rappresentata su un fondo azzurro, intenso, nelle sue infinite tonalità.

Gli altri affreschi, ricchi di dettagli, rappresentano altre scene bibliche, come la Genesi, ma anche preghiere e inni sacri. Nell’Albero di Gesù, o Albero di Jasse, si possono scorgere i ritratti di antichi filosofi greci come Aristotele e Platone.

Il monastero Voroneț coniuga elementi bizantini e gotici visibili nella torre, nelle finestre ad arco gotico e nelle cornici rettangolari delle porte. Non è per niente monumentale, anzi, è piuttosto piccolo ( 25×11 metri),  ma credetemi,  l’impatto è capace di togliere il fiato, per la bellezza e l’intensità dei suoi dipinti e per quell’azzurro che stranamente pare che cambi la sua tonalità a seconda del grado di umidità nell’atmosfera. La composizione del colore, realizzata con un pigmento sconosciuto oggi, molto durevole nel tempo e che gli conferisce una brillantezza fresca e inusuale, è stata persa con la morte dell’autore.  Si racconta che, alla fine del sedicesimo secolo, l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo inviò a Voroneț due alchimisti per studiare e capire il segreto del colore azzurro del monastero. Vennero, toccarono, prelevarono dei frammenti e li portarono a Praga, ma non seppero ricreare l’ azzurro degli affreschi. L’enigma dell’azzurro di Voroneț è tuttora irrisolto, visto che neanche chimicamente non si è riuscito a riprodurlo. Oggi si sa solamente che alla base di questo colore c’era un minerale chiamato azzurrite. Magia, stregoneria o alchimia, si è cercato di spiegare in tutti i modi il segreto dell’azzurro di Voroneț.  A sentire una delle monache del monastero, che si è demanastiredicata, negli ultimi anni, al restauro dei dipinti, “è proprio il colore che ha portato le anime tra queste mura, un vero miracolo della fede. Ogni santo raffigurato, ogni storia biblica, ogni dettaglio si sono fissati negli occhi dei visitatori grazie all’azzurro…E’ una carezza che giunge dal cielo…”

Così come sempre dal cielo sembrava giunta, nel 1475, l’ispirazione che ebbe l’eremita Daniil di Putna, nel consigliare Ștefan cel Mare (Stefano il Grande), il voivoda-principe della Moldavia, di intraprendere una campagna militare contro i turchi, guidati dal sultano Maometto II. L’eremita gli avrebbe predetto anche la vittoria, chiedendo al principe di erigere sul posto un monastero nel nome di San Giorgio Martire, come Patrono della sua chiesa. Stefano il Grande vinse quella battaglia e  fu considerato dagli storici il primo dei principi del mondo ad aver ottenuto una vittoria contro i turchi. In seguito,  papa Sisto IV lo nomino: 

manastirea_voronet“atleta di Cristo e un vero difensore della fede cristiana”. Si susseguirono tante altre battaglie e solo nel 1488, il voivoda mantenne la promessa fatta al sua consigliere-eremita e ordinò la costruzione di un monastero a Voroneț, che doveva diventare un luogo sacro simbolico in quella parte dell’Europa cristiana minacciata in permanenza dai turchi.  Il monastero fu edificato in meno di 4 mesi, ma gli affreschi furono aggiunti 60 anni dopo. Voroneț fu solo uno di una lunga lista che contiene tanti luoghi di culto costruiti da Stefano il Grande, nei suoi 44 anni di principato: la tradizione vuole che ci fosse stata una  chiesa per ogni anno e per ogni battaglia vinta contro i turchi. Le malelingue, esperte in “gossip storico”, parlano anche di tanti figli del voivoda, legittimi e illegittimi, certo, non tanti quanti i luoghi sacri che ha fatto edificare.  Ma queste “chiacchiere da salotto” non hanno impedito la Chiesa Ortodossa a santificarlo,  nel 1992, per il suo ruolo fondamentale nella difesa della cristianità. Nel 1475,  Stefano il Grande scrisse una lettera a tutti i sovrani cristiani d’Europa in cui ribadiva che “il nostro paese è la porta della cristianità finora difesa, con l’aiuto del Signore, ma se questa porta sarà persa, che Dio ci guardi, tutta la Cristianità sarà in grande pericolo”. 

Dopo più di cinquecento anni dalla loro costruzione, alcuni dei monasteri dipinti di Bucovina sono diventati patrimonio Unesco e attirano ogni anno oltre 2 milioni di turisti, attratti dalla bellezza degli affreschi e da quel misterioso azzurro che non si può scorgere in nessun’altra parte del mondo. Mi viene in mente che Fulcanelli aveva scritto ne Il mistero delle cattedrali che il segreto degli alchimisti è racchiuso in un colore di una vetrata di Nôtre Dame a Parigi. Il segreto dell’azzurro di Voroneț, invece, che neanche gli alchimisti dell’epoca sono riusciti a decifrare è racchiuso tra le mura di un monastero, nel lontano Est.

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