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Cluj-Napoca, il cuore della Transilvania

Mi piace scherzare con mio figlio e a volte e gli dico: “Quando finirai il liceo, andrai all’università in Transilvania, a Cluj-Napoca, incontrerai una ragazza rumena di cui ti innamorerai e rimarrai a vivere là”, e lui risponde protestando (giustamente) che non gli posso programmare il futuro! Forse dentro di me  sento che il ritorno di mio figlio a Cluj chiuderebbe un cerchio, iniziato con la mia partenza, da Cluj, oltre 13 anni fa. O forse semplicemente mi piacerebbe che lui andasse a studiare nella città-capitale della Transilvania perché è una bellissima città (con meravigliose chiese, basiliche, teatri, mura antiche, statue, piazze, il fiume Somes che romanticamente la attraversa), cosmopolita, con mille realtà culturali amalgamate dallo spirito di tolleranza, il secondo centro universitario della Romania (dopo quello di Bucarest), con 8 università e più di 100.000 studenti.  Ma sopratutto perché ho trascorso lì buona parte della mia vita e la considero città dell’anima.  Si potrà dire così?  Non sono affatto imparziale e spassionata dunque quando parlo di Cluj-Napoca (si pronuncia ‘kluʒ napo’ka e non Clui) e quando la consiglio agli amici come meta per le vaclujcanze.

Beh vi stupirà ma non sono l’unica a pensarla così! Il Daily Mail, prestigioso quotidiano britannico, ha realizzato nel luglio del 2014, un sondaggio sul livello di ospitalità di 79 città europee verso gli stranieri.

Ehm ehm… Cluj-Napoca occupa il primo posto nella classifica! Alla domanda “ritenete positiva la presenza degli stranieri nella vostra città?” il 91% degli abitanti ha risposto affermativamente. Un plebiscito!
Seguono a ruota Lussemburgo, Cracovia, Copenhaga e Ljubliana. Tra le maglie nere italiane, in fondo alla classifica, Torino, Napoli, Roma e Bologna. Fanalino di coda Atene.

Quando ho letto i risultati del sondaggio mi sono sentita orgogliosamente felice, ma non mi sono meravigliata più di tanto. La città di Cluj-Napoca è da sempre luogo di incontro di diverse lingue e culture : rumene, ungheresi, sassoni, ebree, armene, slave e altre minoritarie e diverse religioni: ortodossa, cattolica, greco-cattolica, protestante, luterana.cluj-napoca

La diversità si “respira” già entrando in città e si legge nei cartelli che ti danno il benvenuto. Pur non essendo un posto di confine, il nome della città è scritto in tre lingue: Cluj-Napoca (rumeno), Kolozsvár (in ungherese), Klausenburg (in tedesco). Alcune fonti dicono che l’origine del nome derivi dalla parola Castrum Clus ( “città chiusa”,  per via delle montagne che la circondano) mentre altre fonti vogliono l’origine del nome tedesco Klaus (“passaggio tra le montagne”). Il nome Napoca è stato aggiunto durante il regime comunista, per sottolineare l’origine dacica e romana della città. Non a caso, uno dei simboli è proprio la Lupa Romana, che alatta Romolo e Remo, una statua donata a Cluj dalla città di Roma e che si trova proprio al centro della città.
Il multilinguismo è una realtà indiscutibile in questo posto, lo è sempre stato.  Spesso entrando nei negozi vieni salutato in rumeno, ungherese o tedesco, le tre lingue parlate fluentemente dagli abitanti, oltre l’inglese.  Facilmente senti parlare anche romanes (la lingua dei rom), armeno, italiano, arabo. Mi ricordo che, negli anni ’80, nelle università di Cluj, c’erano molti studenti stranieri, sopratutto provenienti dai paesi arabi e dalla Grecia,  che non solo arricchivano le casse dello stato, pagando tasse in dollari, ma aggiungevano un tocco di universalità alla città, abbastanza inconsueto nella Romania comunista.

La diversità linguistica della città ha radici storiche piuttosto articolate. I primi insediamenti furono dei Celti e dei Daci, colonia romana nel I secolo a.C., conquistata e distrutta dai Goti, dagli Unni di Attila e dagli Avari, contaminata dalle popolazioni slave, annessa al I impero bulgaro, dominata dai magiari prima e dagli ungheresi dopo, devastata dai mongoli, colonizzata dai tedeschi (1270 d.c) annessa più volte all’impero austro-ungarico, capitale del principato austriaco della Transilvania, ritornata a far parte della Romania (1918), occupata dai sovietici dal 1944 al 1952 e infine di nuovo città della Romania comunista e poi democratica!!

Forse il posto più suggestivo, il simbolo dellsan michelea città,  è Piața Unirii ( Piazza dell’Unità), con al centro la statua del celebre re d’Ungheria Matei Corvin (Mathias Rex), non a caso nato qui nel 1443. La piazza è dominata dall’imponente Chiesa di San Michele, costruita tra il XIV e il XV secolo, uno dei più rappresentativi edifici gotici del Paese e un importante monumento religioso. Vale la pena visitare il suo interno (ingresso libero), caratterizzato da diversi stili architettonici, dal rinascimentale al barocco.  A ricordare la vecchia colonia romana, è stato ricavato uno spazio coperto da un vetro su alcune rovine romane, portate alla luce dagli archeologi. Nella stessa piazza, teatro degli scontri  durante la rivoluzione anticomunista del 1989, si trova una lapide che ricorda i morti di quei giorni. La storia tormentata di questa città ha lasciato il segno ad ogni passo.

Dalla Piața Unirii, passeggiando per il Bulevardul Eroilor (Boulevard degli Eroi), troverete la statua della Lupa Romana; proseguite fino ad arrivare nella Piața Avram Iancu (che prende il nome da un eroe nazionale, tra i capi della Rivoluzione della Transilvania, del 1848). Qui si trovano la Cattedralupale Ortodossa e il Teatro Nazionale, edifici costruiti all’inizio del novecento. Vi consiglio di entrare nella cattedrale e di assistere a una messa ortodossa, vi garantisco che sarà un’esperienza che non vi lascerà indifferenti. Siccome i rumeni sono molto religiosi e molto…ortodossi, la chiesa si affolla a ogni messa, le donne a sinistra e gli uomini a destra, tutti a pregare in piedi o in ginocchio, dopo aver fatto la fila per baciare l’icona che si trova davanti all’altare.

La ricchezza architettonica della città è sotto gli occhi di tutti.  A Cluj si trovano importanti monumenti di epoca medievale (il Bastione dei Sarti o Bastione Bethlen, la Chiesa benedettina Calvaria),  rinascimentale (la chiesa gotica, calvinista,  senza campanile, la casa di Matei Corvin, il Museo della Farmacia, la statua di  San Giorgio che uccide il drago), barocca ( il palazzo Banffy,  attualmente sede del Museo dell’Arte), il monumento liberty dedicato a Matei Corvin.  C’è poi la Sinagoga “Neologa”, in stile neomoresco, sul modello della Sinagoga di Vienna.

Una passeggiata nel Parco Centrale della città è d’obbligo per tanti motivi: è un’isola di verde con una storia di oltre 180 anni, avrete la possibilità di fare una passeggiata in barca sul lago,  ma anche di fare ginnastica nella palestra all’aperto attrezzata al centro del parco. In fondo si trova il nuovissimo stadio Municipale da 23mila posti, il  Cluj Arena,  che ha la forma di un’astronave. Dobbiamo dire che proprio grazie a questo stadio e alla squadra CFR Cluj (in Champions League nel 2012), molti italiani hanno appreso dell’esistenza della città di Cluj-Napoca. stadio

Stanchi della passeggiata in città? Fermatevi nella zona pedonale (Bulevardul Eroilor), frenetica ma non caotica, vivace e dinamica grazie alle migliaia di studenti che vengono qui da tutta la Romania e parte dell’Europa. La strada è piena di locali e bar all’aperto con terrazze. Avrete solo l’imbarazzo della scelta su dove fermarvi per sorseggiare un drink, assaggiare un dolce tipico, bere un espresso e respirare l’aria pura, tra le più pulite d’Europa, secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente.
Se volete mangiare in un ristorante potete scegliere tra la cucina tradizionale rumena, quella italiana, l’araba, l’ungherese, la greca…A Cluj si può pranzare praticamente a qualsiasi ora!

In auto, in treno, in aereo (in città c’è un comodo aeroporto internazionale), se state ancora pensando se andare o no in Transilvania, a Cluj-Napoca, vi darò un motivo in più per farlo: nel 2015, sarà la Capitale europea dei giovani!

Mirela Baciu




Rivoglio i miei vent’anni… quando facevo il militare!

Ho vissuto per 21 anni sotto il regime comunista di Ceaușescu, anche se i miei genitori appartenevano a quello che oggi chiamano la “classe privilegiata” e che all’epoca era la “nomenclatura” del partito. Nel dicembre del 1989, quando scoppiò la rivoluzione rumena, mio padre e tutti i dirigenti del partito comunista rimasero chiusi nei palazzi del potere, con le armi in dotazione, aspettando ordini, chiarimenti, decisioni da Bucarest, nella confusione e nel caos più totale in cui cadde il paese intero. Invece di ordini dall’alto, arrivarono i rivoluzionari, dal basso, dal popolo,  che occuparono le strutture del potere. Con il terrore che non sarebbe mai tornato a casa o che sarebbe finito in prigione, ci scrisse una lettera che ci lasciò la mattina del 20 dicembre, quando uscì di casa come tutte le mattine, per andare al lavoro. Ci diceva che tutto quello che aveva fatto negli ultimi vent’anni lo aveva fatto per proteggere noi.

Ma non è su questo che voglio scrivere anche se, a dire il vero,  ci sarebbe tanto da parlare sul conflitto interiore che mi ha logorato a lungo tra l’amore indiscusso per mio padre e la tentazione di giudicarlo per errori e colpe non direttamente sue, ma del regime, per i troppi silenzi, le molte omissioni e l’eccessiva sottomissione.

Nell’aprile del 2014, un sondaggio realizzato in Romania dall’istituto IRES scopre che il 66% dei rumeni intervistati vorrebbero di nuovo conducătorul iubit (leader amato), ossia Nicoale Ceaușescu,  a guidare il paese, perché, secondo loro,  prima si viveva meglio. Quello che ha sorpreso gli analisti politici rumeni e stranieri non è stata l’alta percentuale di nostalgici, ma il fatto che, negli ultimi 4 anni, il loro numero è cresciuto addirittura del 25%. Nonostante i venticinque anni trascorsi dalla caduta del regime comunista, la sanguinosa rivolta popolare,  la fucilazione del dittatore con la moglie Elena nel giorno di Natale ’89 e all’instaurazione della democrazia, i rumeni rimpiangono il loro lavoro sicuro, la casa a cui pensava il partito, il fatto che tutti avevano la vita che sembrava la migliore possibile. “Questa sorta di nostalgia di comunismo non è altro il che frutto di una cattiva memoria”, hanno sentenziato gli analisti. Beh si, facile dare sentenze e tirare sempre in ballo la memoria collettiva! mormant-ceausescu1Io preferisco appellarmi alla memoria individuale, la mia, e vi dirò, con onestà,  di cosa sono nostalgica e cosa invece non mi manca di quei 21 anni vissuti nella Romania comunista.

Ho nostalgia delle belle giornate e serate passate a divorare libri, in assenza della tivù come alternativa “contagiosa”, visto che c’era un solo canale e due ore di programma, dalle otto alle dieci di sera. Ho nostalgia dei cartoni animati russi (uno in particolare, di un lupo che inseguiva sempre un coniglio furbacchione, che non si faceva mai acchiappare e che ho fatto vedere anche a mio figlio quando era piccolo), dei film russi che adoravo (il grande regista Nikita Mihalkov!), dei libri vietati dalla censura che ci passavamo sotto mano e leggevamo di nascosto.
Non ho nostalgia invece della propaganda quotidiana che dilagava in tv nei discorsi del dittatore, della censura che vietava libri, poeti, scrittori e ogni forma di arte libera; delle continue interruzioni di corrente imposte come forma di risparmio energetico, che ci obbligavano a fare i compiti al lume di una candela o di una lampada a petrolio.

Ho nostalgia del mio liceo pieno di alunni, con le sezioni che arrivavano alla lettera M, del cortile della scuola in cui ci incontravamo nelle pause a parlare di tante cose, sottovoce.  Mi ricordo che, quando qualcuno raccontava una delle tante barzellette che circolavano sul dittatore o sul regime, sapevamo che era un “provocatore” e seguivamo i consigli dei genitori di non ridere, mai. Eravamo tanti quelli della mia generazione, ci chiamavano decreței,  figli del decreto 770 del 1967,  che vietava gli aborti. Ci piaceva credere che eravamo frutti di un amore e non di un decreto. Non scherzavamo molto perché sentivamo anche noi  i nostri genitori raccontarsi di qualche amica o conoscente che era morta nel tentativo clandestino di abortire. Non mi mancano assolutamente le file davanti allo studio medico del liceo, per i controlli ginecologici obbligatori a cui ci dovevamo sottoporre dopo che una di noi era rimasta incinta ed aveva provato ad interrompere la gravidanza in casa, rischiando la vita.

Mi mancano invece le lunghe file davanti ai teatri, dove la censura non era ancora entrata o era troppo ignorante per capire i sotterfugi dei registi, che trasformavano  gli spettacoli in vere forme de dissidenza culturale. Mi mancano le serate di cinema alla Casa degli studenti, dove ho visto i film di Visconti, Fellini, Pasolini, trascurati dalla censura, nella mischia di film russi, indiani o cinesi. Non mi mancano i documentari propagandistici che precedevano i grandi film d’autore e neanche i festival dedicati a Ceaușescu, per nutrire il suo eccessivo culto della personalità.

Ho nostalgia dei corsi universitari, alla Facoltà di Lettere di Cluj,  una piccola isola di universalità, in cui avevamo la libertà di viaggiare con la mente senza che nessuno potesse impedircelo, in cui ognuno veniva gratificato per i propri meriti, apprezzato per il suo valore. Mi mancano le colonie estive dove andavano i più meritevoli, come premio per il loro impegno alla “costruzione di una società comunista esemplare“.  Non mi mancano i giorni di militare (si ho fatto anche il militare!), obbligatori per le studentesse, in cui in cui venivamo istruite per diventare un esercito di donne. Non mi mancano neanche le lunghe marce sotto il sole, con il Kalashnikov appeso sulla spalla, la stessa che diventava viola per il rinculo del fucile quando andavamo al poligono a sparare, un maledetto Kalashnikov che non riuscivo mai a rimontare correttamente, sempre con un pezzo avanzato in mano da collocare.

E cosa dire delle ficoada-permisele davanti ai negozi di alimentari, con la scheda chiamata cartelă in mano, per ottenere un pezzo di pane  e un litro di latte al giorno e, mensilmente, 1 kg di zucchero, 1 di farina, 1 di olio, 10 uova, 1 kilo di carne,  la nostra razione,  per me e mia sorella, che eravamo studentesse e vivevamo da sole? No, quelle non mi mancano affatto!

Noi, da privilegiati, potevamo acquistare ogni tanto anche altre cose, il caffè solubile ad esempio, il cioccolato cinese, salame,  qualche deodorante tedesco, saponi ungheresi, scarpe di qualità destinate solo all’esportazione,  medicinali, cotone idrofilo, qualche libro vietato dalla censura.  La nostra casa diventava a volte una sorta di mensa per gli amici, i meno fortunati.

Ho nostalgia degli inverni a casa dei miei nonni, in campagna, dove le stufe in terracotta riscaldavano le stanze per tutta la notte. Non mi mancano, ovviamente, gli inverni in città, con sole due ore di riscaldamento al giorno, a volte a 35 gradi sotto zero, in una pazza corsa al risparmio energetico del regime.

Ho nostalgia delle visite in Romania di tanti Elena (signora), l’amica francese di mia mamma, che portava con lei tutto il profumo parigino del mondo proibito.  I miei primi jeans “capitalisti” me li ha portati lei e mi hanno invidiato tutti a scuola. Mio padre preferiva non essere presente alle visite, perché trattandosi di una straniera, questo presupponeva che doveva fare un rapporto ai servizi segreti su quello di cui si era parlato, visto che ogni cittadino proveniente dall’occidente era indicato come una possibile pericolosa spia capitalista.

Mi mancano le serate in famiglia, quando ci riunivamo tutti, alla fine di un’altra giornata vissuta in quel mondo “protetto”, dove ognuno aveva una casa, un lavoro,  un progetto di vita chiuso tra tante limitazioni e divieti ma “sicuro”. Non mi mancano quei minuti in cui spiavo con un bicchiere appoggiato al muro mio padre e mia madre che, chiusi in bagno, aprivano l’acqua del rubinetto e cominciavano a parlare delle decisioni spesso assurde e sofferte che gli ordini arrivati da Bucarest li obbligavano a prendere, cose di cui non si poteva parlare liberamente. Presto avrei capito che il rumore dell’acqua copriva le parole “ribelli” di mio padre che sapeva che tutta la casa era piena di microspie… tranne il bagno appunto, una traccia di buonsenso forse in un mondo ormai impazzito!




Paese che vai, cibo che porti

Tutti sanno che l’italiano che va all’estero, per una settimana, un mese, un anno o per sempre non può fare a meno di taralli, tarallucci e vino, di olio extravergine di oliva e caffè, di grana e soppressata,  di alcune marche di biscotti, di peperoncino tritato, origano, basilico e rosmarino, di riso Carnaroli,  bottarga e salsicce, guanciale di Amatrice e pecorino (se no, come mangi l’amatriciana?). Vogliamo parlare della moka o della caffettiera napoletana?  O dello sgrassatore Chante Clair?

La lista è lunga e non lascia spazio a sorprese se non fosse che  non si tratta affatto di una semplice lista, un elenco di articoli, tipo supermercato.  A volte esprime una vera filosofia di vita, una “cura contro la nostalgia”, ogni prodotto funziona come la madeleine di Proust, quel biscotto inzuppato nel tè, che ha il potere, con il suo profumo e il suo sapore, di riportare nella memoria il tempo perduto e felice dell’infanzia.

Quando qualche parente italo-americano di mio marito viene in Italia da New York, al ritorno porta cose che non hanno solo un nome già saporito, ma anche una storia.  Per esempio la parmigiana di melenzane di zia Giannale chiacchiere o le zeppole di zia Rina. La marmellata di fichi di zia Nunzia.  Le freselle comprate nello stesso panificio, quello che c’è nello stesso posto da sempre. La valigia di ritorno dall’Italia non è piena solo di cose vitali, “indispensabili”, ma soprattutto di ricordi che fanno vivere delle gioie irrinunciabili per un italiano all’estero.

Possono sembrare vizi e capricci culinari e ammetto che anche io li giudicavo come tali all’inizio. Ma poi, ci sono cascata anche io. Quando siamo andati a Londra, due anni fa, a Pasqua, con degli amici, abbiamo messo in valigia: la pastiera napoletana, il casatiello, la caffettiera ed il caffè. Quando vado in Romania porto il parmigiano, il grana, olive di Gaeta, limoni freschi, pasta mista (che non trovo mai nei supermercati rumeni), peperoncino tritato, origano, la marmellata di arance. I miei, concordo,  sono dei vizi, ma non posso farne a meno. Ogni volta che svuoto le valigie, mi ritornano in mente le stesse immagini: a metà degli anni novanta,  lavoravo come interprete per una ditta italiana a Cluj, in Transilvania. I due soci erano bergamaschi e all’inizio venivano spesso in Romania, dove rimanevano mesi, per seguire da vicinocibo emigrante gli affari. Arrivavano sempre in macchina ed  era un vero spettacolo vederli scaricare il portabagagli. C’erano: tante casse d’acqua, naturale e frizzante, olio extravergine di oliva, passato di pomodoro, caffè, pasta, riso, grana padano, formaggi, insaccati, banane, biscotti, fette biscottate, detersivo, ammorbidente…  e l’immancabile caffettiera. Qui farei una breve parentesi, un po’ anche per giustificare la presenza della caffettiera nelle loro valigie: all’epoca in Romania si beveva ancora il caffè turco, una specie di infuso di caffè, preparato in un pentolino alto e stretto in rame,  provvisto di un lungo manico, in cui si mettevano due parti di caffè, una di zucchero e circa una dozzina di acqua. Si mescolava e si portava ad ebollizione. Si levava dal fuoco e si lasciava raffreddare, in modo che il sedimento si depositasse sul fondo delle tazzine. Assumeva forme particolari che potevano essere interpretate dalle famose “ghicitori în cafea” (quelle che leggevano nel caffè e predicevano il futuro). Non sapevano gli italiani che cosa si perdevano rifiutandosi di bere in Romania il caffè turco! O forse sì…

Lo so che vi sembrerà una barzelletta, ma la prima volta che ho preparato il caffè in una caffettiera napoletana, stava per esplodere! Avevo messo l’acqua sopra, il caffè nel filtro e aspettavo che scendesse nel recipiente di sotto! Supposto anche che la caffettiera napoletana in Romania fosse proprio indispensabile (ma magari anche un corso di preparazione del caffè per i rumeni…), questi italiani passavano  agli occhi degli amici rumeni  per dei viziati e maleducati,  che non si fidavano nemmeno di bere la nostra acqua, che non avevano nessun interesse per la nostra cucina e che volevano vivere da perfetti italiani in Romania!  Adesso, guardando indietro, dopo vent’anni, li capisco:  non si tratta di un vizio, è piuttosto “nostalgia gastronomica“!

 




“Pui pe sticlă”, c’è un pollo sulla mia birra!

pollo sulla bottigliaQuando ho cucinato per la prima volta in Italia il pollo sulla bottiglia (come una ricetta rumena particolare, a grande richiesta) sapevo che si sarebbe arrivato a parlare di Dracula o, meglio, di Vlad l’Impalatore. “Si vede che siete i suoi eredi, ha detto un amico, impalate persino i polli…”. La scena era tragicomica: il povero pollo che troneggiava nel forno su una bottiglia di vetro e tutti che lo guardavanocuriosi…tra battute, alcune originali, alcune “prestate” dai comici (vi ricordate la parodia dei Negramaro che faceva qualche anno fa Checco Zalone, quando cantava la canzone Lu pollu cusutu n’ culu ?) ed esclamazioni che si alternavano tra terrore e divertimento, passando per la pietà per il povero pollo. Il dubbio più frequente che veniva agli intenditori di cucina era perché sottoporre il pollo ad un trattamento simile, quando c’era l’alternativa meno crudele del pollo arrosto? Quando hanno cominciato a mangiare hanno capito la differenza. Il pollo cucinato sulla bottiglia ha due grandi qualità: è morbido ed aromatico dentro, croccante e saporito fuori. In più, il vino o la birra con la quale deciderete di riempire la bottiglia, con l’insieme di erbe aromatiche, daranno un profumo particolare alla carne.

 La ricetta è molto semplice, ma la preparazione del pollo necessita un paio d’ore prima di metterlo nel forno.

  • Lavate bene il pollo, che sceglierete in base alla grandezza del vostro forno. Spalmatelo, all’interno e all’esterno, con olio e un mix de erbe aromatiche e spezie:  aglio a piacere, sale, pepe, rosmarino, paprika dolce.
  • Lasciate riposare il pollo speziato nel frigo per un paio d’ore
  • Riscaldate il forno a 180 gradi
  • Svuotate a metà una bottiglia di birra (o vino se desiderate) e aggiungete acqua. Se volete preparare la versione analcolica svuotatela del tutto e riempitela con acqua o con brodo.
  • Posizionate il pollo verticalmente, seduto sopra la bottiglia e mettetelo in una pirofila con un bicchiere d’acqua. Durante la cottura, aggiungete altra acqua se si asciuga troppo.

Il tempo di cottura necessario è di circa un’ora, ma lo capirete da soli dal colore che prenderà il pollo fuori e dalla sua croccantezza. La cottura sarà a metà tra arrosto e bollito, più saporito del primo e meno insipido del secondo.