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Ciao, ciao Romania?

Addio al test di ingresso alla Facoltà di Medicina, addio al numero chiuso, dal 2015 cambieranno le regole, l’annuncio è stato fatto dal ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini. Il modello sarà quello francese, chiamato con un termine non molto incoraggiante, ghigliottina,  con il primo anno aperto per tutti e dopo il primo o il secondo si farà una selezione basata sul merito. Immediate le reazioni dei rettori che avanzano critiche logistiche e meritocratiche al progetto del Ministro che ha già fatto sapere che non tornerà indietro. Festeggia buona parte degli studenti che avrebbe dovuto affrontare il test d’ingresso il prossimo anno.

Le matricole di quest’anno saranno le ultime ad aver superato il test d’ingresso per la facoltà di medicina, vero incubo di tutti gli aspiranti medici. Ad ogni sessione si presentano oltre 60mila studenti per circa 10mila posti disponibili su tutto il territorio nazionale.

Dal prossimo anno questo incubo potrebbe finire.  Il Ministro Giannini aveva annunciato l’abolizione del test d’ingresso a medicina prima delle elezioni europee e in occasione dell’incontro con i rettori delle università italiane ha ribadito il suo intento. Ma per questioni logistiche non è stato possibile applicare le modifiche a partire da questo anno.

“Quello su cui ci dobbiamo interrogare molto seriamente, e lo stiamo facendo a partire da questi giorni, è se il test, un quiz di sessanta domande senza alcuna considerazione del percorso scolastico, due ore per decidere non solo degli studi ma della vita di un ragazzo, sia lo strumento ideale”, ha affermato la Giannini, aggiungendo che  il modello su cui stanno lavorando e quello più vicino al modello francese.  Il Ministro ha spiegato che alla fine del primo anno o addirittura a metà, quindi dopo sei mesi, si farà una selezione severa degli studenti e soltanto i più meritevoli potranno accedere al secondo anno e proseguire con il corso di studi in medicina. Gli studenti al pensiero di avere libero accesso alla facoltà di medicina, hanno accolto positivamente le dichiarazioni del Ministro, ma i rettori si sono mostrati meno entusiasti, precisando che il modello francese è molto severo: in Francia superano la cosiddetta “ghigliottina” soltanto 2 studenti su 10.

Con le nuove regole sparisce almeno la rocambolesca corsa per accedere alle graduatorie e per l’accesso al primo anno, che essendo a numero chiuso, lasciava fuori migliaia di candidati. In più, c’è anche la vicenda dei ricorsi al TAR, oltre 2400 l’anno scorso, tra cui hanno vinto 200 e il caso sta mettendo in difficoltà tutti gli Atenei, con i rettori preoccupati per la sostenibilità dei corsi, dal punto di vista didattico. 

Il numero chiuso è stata una delle cause che, negli ultimi anni, ha spinto oltre 45.000 ragazzi ad andare all’estero per seguire i corsi di medicina. In Romania ci sono circa 3000 italiani che studiano medicina, la maggior parte è iscritta a odontoiatria. I centri universitari dove scelgono di andare a conseguire la laurea sono: Timișoara, Arad, Cluj-Napoca, Iași, Constanța e Bucarest. Negli ultimi 5 anni il numero degli studenti italiani iscritti in queste università sono più che raddoppiati. I ragazzi italiani, aspiranti medici “scappano” dall’Italia (forse adesso dobbiamo dire “scappavano”, visto che il temuto test d’ingresso è stato eliminato) principalmente a causa del numero chiuso che limita a molti l’ingresso alla Facoltà di Medicina, ma non solo. Le testimonianze degli studenti italiani che studiano in Romania parlano anche delle tasse, molto più basse in Romania, e della possibilità che hanno di fare pratica negli studi odontoiatrici dal terzo anno. E’ inoltre gradita la “flessibilità” del sistema universitario rumeno, per quanto riguarda gli studenti stranieri, che permette di dedicare un anno allo studio della lingua e poi, solo al terzo anno, se non si superano tutte le prove, si procede con la bocciatura.

Insomma, la decisione del ministro dell’Istruzione di sospendere il test d’ingresso alla Facoltà di Medicina cambierà sicuramente le cose e speriamo anche le statistiche. L’ultima, pubblicata dal Consorzio delle università italiane, indicava un crollo significativo del numero di laureati (oltre 11 % nell’ultimo anno), l’area più colpita è proprio quella sanitaria, medicina compresa. Cifre che spostano l’Italia in coda alla classifica delle nazioni europee, realizzata in base al numero di laureati, dopo Portogallo, Slovacchia, Romania e Repubblica Ceca.




Uccelli di rovo… 30 anni dopo

Vi ricordate la serie Tv “Uccelli di rovo” che uscì circa 30 anni fa ed ebbe un immenso successo in tutto il mondo, compresa l’Italia? Vi ricordate Richard Chamberlain che era padre Ralph, innamorato di Maggie, con la quale ebbe anche un figlio?
Un amore sofferto e disperato che durò una vita.

La lettera che 26 donne hanno mandato al papa Francesco, confessando di essere amanti dei preti e di parlare a nome di migliaia di donne che vivono nel silenzio, mi ha fatto inevitabilmente ricordare il film. Le donne chiedono al papa di essere ricevute per poter raccontare le loro storie d’amore vissute con dolore e sofferenza. Chiedono che la legge sul celibato sia rivista e cambiata. “Noi amiamo questi uomini e loro amano noi”, scrivono, aggiungendo che le uniche alternative possibile sono l’abbandono del sacerdozio o la persistenza a vita di una relazione segreta, che riempie il loro cuore di un dolore devastante.
Per le “amanti” dei preti, rimanere in clandestinità può sembrare una soluzione ipocrita, ma si vedono costrette a scegliere questa via, perché i preti non sono capaci di scegliere tra l’amore per Dio e l’amore per la loro donna. Secondo le firmatarie della lettera, il sacerdote servirebbe con più slancio la Chiesa se non fosse obbligato a rinunciare alla vocazione dell’amore coniugale, unita alla vocazione sacerdotale e avrebbe l’appoggio della moglie e dei figli nel suo percorso sacerdotale. “Speriamo con tutto il cuore che tu benedica i nostri amori”, concludono le 26 donne. Il mondo di fede ortodossa che mi ha cresciuto non pone limitazioni di questo tipo ai sacerdoti, sono abituata a pensare al mio parroco come a uno che ha una famiglia anche al di fuori della chiesa; diversamente, il tema del celibato nella chiesa cattolica è un argomento tabù che solo ultimamente è stato rimesso in discussione. Il Papa ha espresso la sua posizione durante una conversazione con il rabbino Abraham Skorka: “ Per il momento sono a favore del celibato, con i pro e i contro che implicano, perché sono dieci secoli di esperienze più positive che errori. Se ipoteticamente, il cattolicesimo occidentale rivedesse il tema del celibato, lo farebbe per ragioni culturali (come in Oriente) e non come opzione universale”. La posizione del papa è molto chiara, ma non si può comunque ignorare una realtà che spesso è tema di scandali nei media, quando esce fuori la storia di qualche prete che ha rinunciato con sofferenza alla sua vocazione sacerdotale per poter vivere accanto a una donna o per poter prendersi cura di un figlio.

In Italia ci sono dei blog che hanno come tema proprio l’amore tra una donna e un sacerdote, come per esempio http://blog.libero.it/leieilsacerdote/ e anche un sito http://sacerdotisposati.altervista.org/ . I sacerdoti sposati, per esempio, si considerano non contro la chiesa, ma a favore della riforma della chiesa e la prima legge che si dovrebbe abolire, secondo loro, è proprio quella del celibato.

 




La mia Babele interiore

Sono nata in un paesino della Transilvania, dove l’80% degli abitanti erano ungheresi, ho imparato a parlare mischiando facilmente il romeno e l’ungherese, perché i miei amici erano ungheresi, la mia maestra di asilo era rumena, la nostra vicina che si prendeva cura di noi quando i miei erano al lavoro si chiamava Marinèni e faceva delle zeppole con la marmellata di prugne squisite. Il marito, Pistàbacsi, ci accompagnava a scuola con la carrozza, dopo portava mio padre, che era il sindaco del comune, in giro per i paesini. Nel tempo libero, mio padre era anche l’istruttore di ballo per il gruppo popolare ungherese del comune. La mia migliore amica si chiamava Bobby ed era ungherese. A 8 anni ci siamo trasferiti a Bistriza, una città sassone nel nord della Transilvania, dove tutte le scuole avevano sezioni in tedesco e ungherese. I sassoni, “sașii”, erano ancora numerosi, prima che molti emigrassero in Germania. A Bistriza si parlava rumeno, tedesco, ungherese e romanes. A scuola, la mia amica del cuore si chiamava Edith, aveva la mamma sassone e il papà ungherese, parlava tre lingue ed è stata la prima ad avere jeans “capitalisti” portati dalla Germania dell’Ovest (all’epoca c’era ancora il Muro di Berlino). I cinque anni di università li ho fatti sempre in Transilvania, a Cluj Napoca, la capitale della regione, “Cluj, Koloszvar, Klausenburg”: questi erano i tre nomi che si potevano leggere all’ingresso nella città. Spesso quando entravo in qualche negozio mi si chiedeva in ungherese cosa desideravo. Non sono riuscita ad imparare bene l’ungherese e me ne pento, anche se ricordavo ancora parecchio di quello che avevo imparato da piccola. Ero troppo impegnata con la scoperta e lo studio della lingua russa e con le letture dei classici russi. All’università ho studiato anche il portoghese, perché il professore era una persona affascinante. Dopo la laurea ho vinto una borsa di studi e ho vissuto per un anno in Portogallo, a Lisbona, mi innamorai perdutamente di questo paese e della sua lingua. Non è successa la stessa cosa in quei 5 mesi vissuti in Danimarca a studiare il giornalismo preso la Fondazione per la democrazia. Il danese è difficile, freddo e duro. Ho imparato abbastanza per capire quando qualche danese affascinante mi sussurrava “Jeg elsker dig”, che vuol dire “ti amo”. Da 12 anni vivo in Italia, a Napoli. L’italiano è la mia seconda lingua, anche se la mia lingua del cuore rimane il portoghese. Ho vissuto più della metà della mia vita fino adesso studiando le lingue e non solo nelle biblioteche, ho avuto la fortuna di impararle vivendo in mezzo ai ungherei, tedeschi, portoghesi, danesi, italiani. Mi ha sempre affascinato cercare di capire la filosofia di un popolo attraverso la sua lingua e la sua struttura linguistica. Credetemi, è un’esperienza bellissima, senza paragoni. Creare un blog bilingue mi è sembrata la conseguenza naturale di un percorso linguistico complesso, che ha un inizio, ma no una fine.




Paste e paste

Spesso, quando torno a casa in vacanza, mi chiedono tutti ricette di paste, specificando sempre “ sai, ricette che possiamo fare anche noi a casa” . Ho capito che in Romania c’è quest’idea che le paste non si possano cucinare sempre con gli ingredienti che si trovano da noi e che, per mangiare un buon piatto di pasta, devi andare al ristorante. Non ho mai saputo cucinare e non ho mai avuto la passione per la cucina. Quando ero in Romania non cucinavo quasi mai, mangiavo fuori, o andavo spesso a mangiare da mia zia Otilia e, il fine settimana, dai miei, a Bistrita. In radio, dove lavoravo dalla mattina alla sera, a pranzo il nostro paradiso culinario era il riso al bambù che ordinavamo al ristorante cinese. All’improvviso l’aria si riempiva di arome orientali. Ho imparato a cucinare in Italia, me l’ha insegnato mio suocero, che aveva un albergo in Toscana ed è un ottimo chef. Ho iniziato con ricette semplici, tradizionali, quelle “caserecce”, come le chiamano gli italiani. Non ricette elaborate, ricercate, ma quelle che aveva imparato dalla sua mamma o dalla nonna e che aveva impreziosito un pò, proprio il tipo di cucina che è stato riscoperto negli ultimi anni in Italia e che è molto ricercato tra i turisti stranieri. Perciò, quando qualcuno mi chiede in Romania di dargli qualche ricetta di paste io penso alla cucina semplice, rustica, con ingredienti facili da trovare o da adattare, ricette che si possono preparare anche nei campus, nelle cucine “povere”, ricette veloci ma squisite. Cucinare pasta ha un grande vantaggio, è molto veloce, in un quarto d’ora hai preparato un piatto saporito che ti sazia. Il problema è che devi inventare ogni giorno un altra ricetta e questo fatto per la mia cugina Mia, per esempio, è impensabile, visto che da noi si cucina un giornata intera per tutta la settimana. Certo che se calcoliamo il tempo che passa Mia in cucina sabato con quello che passo io ogni giorno, secondo me c’è parità. In Italia il pranzo in famiglia è sacrosanto, per molti c’è la pausa pranzo dale 13 alle 16.00, quando chiudono negozi e alcuni ufficci. E’ una tradizione che mi è piaciuta sin dall’inizio, forse perché io avevo solo il ricordo del pranzo in famiglia di domenica. Per concludere, il nostro blog avrà anche una categoria di cucina, in cui vi proporeremo ogni settimana delle ricette semplici da preparare, dei consigli facile da sugire, senza avere la presunzione di insegnarvi a cucinare.