“Una terra promessa dove crescere”… le nostre abilitazioni
Fino a pochi anni fa, pensare di scrivere un articolo come questo sarebbe stata pura fantascienza…
Sono dei veri viaggi della speranza verso una terra promessa, per molti ignota. Giovani e meno giovani lasciano a casa figli, mariti, mogli e nonni, salgono su un aereo, con destinazioni impronunciabili, luoghi sconosciuti, dove si parla una lingua apparentemente simile alla loro, senza essere però in grado di comprenderla. Una volta arrivati, si guardano intorno con curiosità, a volte indifferenza, con timore o anche diffidenza.
Alcuni di loro sono colpiti dalla serietà della gente, altri dai visi tristi dei passanti, c’è chi apprezza la cultura del posto e c’è chi vede solo l’arretratezza. C’è chi per giorni percorre un unico tragitto, tra albergo e “lavoro” e quando torna a casa non conosce nulla più del posto in cui è stato e dove dovrà ritornare fra qualche mese. Non sa ancora pronunciare il nome della città e non sa nulla della sua storia o della sua cultura. C’è chi invece sceglie di confondersi con la gente del posto, per conoscere e capire, superando i pregiudizi e dimenticando giudizi troppo affrettati dettati da stereotipi. C’è chi non vede l’ora di ritornare a casa e chi, una volta a casa, non vede l’ora di ritornare in quella città che si è rivelata una bellissima sorpresa, anche insieme ai figli. C’è chi porta con se, per il viaggio di ritorno, qualche libro di un poeta appena scoperto e subito amato.
Per ognuno di loro, un paese finora sconosciuto è diventato in modo inaspettato non il paese dei sogni, ma di un sogno preciso, quello di un futuro lavorativo migliore e di una vita sicura.
A questo punto vi chiedo di non lasciarvi ingannare dalle mie parole e di non passare subito a conclusioni affrettate. Anche se vi sembrano cose già lette, discorsi ridondanti e argomenti scontati, vi assicuro che non parlo delle migliaia di immigranti che si incamminano ogni giorno sulla strada della speranza in terre lontane. Non parlo dei rumeni, degli albanesi, dei moldavi, degli ucraini che hanno scelto Italia come la loro terra promessa. Non parlo dei disperati che arrivano via mare e che pagano i risparmi di una vita per un viaggio che spesso non riescono nemmeno a portare a buon fine. No, non parlo di loro.
Parlo delle centinaia di insegnanti e laureati italiani che salgono su un aereo, con destinazione… Romania, con lo scopo di ottenere l’ambita abilitazione per poter insegnare in Italia o la specializzazione di sostegno. E’ stato detto che la Romania è diventata una vera fabbrica di specializzazioni, si è parlato di un vero business, sono state fatte anche interpellanze parlamentare in merito a quello che viene chiamata la “scorciatoia estera” delle abilitazioni.
In breve, ecco cosa succede: grazie all’aiuto di agenzie specializzate che si fanno pagare tra i 7mila e i 10mila euro, è possibile iscriversi ad un corso intensivo universitario presso un ateneo di Bucarest o di un’altra città romena. Si accede ai corsi di lingua rumena senza alcuna prova di ingresso e senza alcun tirocinio si raggiunge il traguardo. Nell’arco di un anno e alla fine di tre, quattro viaggi fatti in Romania si ottiene l’abilitazione all’insegnamento. Ovviamente, tutto in romeno! A questo punto, non resta che tornare in Italia e richiedere al ministero dell’Istruzione di riconoscere il titolo.
Non mi interessa l’aspetto formale o legale della questione e nemmeno quello morale.
Penso a tutte le volte in cui mi è stato detto che la mia laurea in lettere ottenuta in Romania, nel 1992, alla fine di un percorso universitario di 5 anni e di 61 esami, 4 anni di insegnamento nei licei non valeva niente, a tutte le volte in cui venivo trattata con sufficienza ed arroganza da quelli che ritenevano una laurea rumena inferiore ed imparagonabile ad una ottenuta nel Bel Paese.
“Vabbè, che vuoi che conti una laurea rumena?”, lo sentivo così spesso che avevo smesso di dire che ero laureata!
Adesso, sapere che i futuri insegnanti dell’Italia si preparano negli atenei rumeni mi riempie di orgoglio. Sapere che seguiranno gli stessi corsi miei di psicologia o di pedagogia, in rumeno, mi fa sperare che potremo scambiarci a breve idee ed opinioni, da collega a collega. Poi, se qualcuno di loro condivide in rete la sua meraviglia di aver scoperto la Romania, pubblicando foto, emozioni, sensazioni e qualche poesia (che io amo), tradotta in italiano, ben venga! Se ognuno di questi spenderà una buona parola sul mio paese quando sarà in classe, davanti ai suoi studenti, magari in rumeno, allora non sarà stato tutto solo un barbatrucco!